Domani
Come saremo, domani, al termine dell’emergenza coronavirus: migliori o peggiori? Radicalmente diversi oppure aggrappati alle vecchie abitudini? Torneremo allo stadio, al cinema o al ristorante senza la paura di un possibile contagio o continueremo a leggere, a guardare, a tifare davanti allo schermo di un computer, come un po’ tutti – dagli studenti ai nonni – abbiamo imparato a fare durante l’isolamento? Come cambierano le relazioni, il sesso, i sentimenti, i rapporti famigliari dopo il lungo distanziamento sociale?
In queste settimane piene di angoscia c’è bisogno dirisposte, di analisi e ragionamenti – parole e suoni che ci permettano di andare oltre, trovare un’idea di normalità, avere un messaggio positivo e di speranza. È quello che prova a fare il podcast “Domani”, una serie prodotta da Piano P con il supporto di Zacapa Rum. Guidati da Carlo Annese, otto artisti, scrittori e creativi racconteranno la loro idea di futuro, immaginando che cosa accadrà dopo la pandemia – perché qualcosa, di sicuro, accadrà.
Da venerdì 17 aprile, per otto venerdì successivi, su tutte le principali app per l’ascolto dei podcast.
Ecco i protagonisti della prima stagione di Domani:
- Mario Calabresi, ex direttore de La Stampa e de La Repubblica, autore de La mattina dopo (Mondadori) e della newsletter Altre Storie;
- Ester Viola, avvocato divorzista e scrittrice, titolare di una popolare rubrica per cuori infrantie della newsletter The Chat;
- Daniele Cassandro, giornalista di Internazionale e autore del pamphlet Siamo davvero in guerra? Metafore e parole del nuovo Coronavirus (Ediciclo – Nuova dimensione);
- Simone Rugiati, uno dei primi e più originali chef televisivi, ideatore di Food Loft e autore di una serie di video-ricette semplici e veloci da realizzare a casa;
- Matteo B. Bianchi, scrittore, editor e autore tv, direttore della rivista letteraria Tina e conduttore del podcast Copertina
- Paolo Condò, giornalista sportivo, opinionista di Sky Sport e co-autore di Un capitano (Rizzoli), l’autobiografia di Francesco Totti;
- Cristina Pozzi, imprenditrice sociale, co-fondatrice e Ceo di Impactscool, scelta tra i giovani leader del futuro dal World Economic Forum nel 2019;
- Carlo Lucarelli, giallista (il suo ultimo romanzo è L’inverno più nero per Einaudi Stile Libero) e conduttore in radio e in tv di programmi sui misteri italiani
Dal 3 luglio Domani è tornato con la seconda stagione. Ecco i protagonisti:
- Il 10 luglio parliamo di moda con Gaia Segattini
- il 17 luglio dialoghiamo di teatro e di migrazioni con l’attore e drammaturgo Davide Enìa
- il 24 luglio spazio alla musica con Ghemon, tra i leader delle richieste dei cantanti per il ritorno della musica live
- il 7 agosto Federico Faloppa, linguista all’Università di Reading, analizza il linguaggio dell’emergenza
- il 21 agosto trattiamo di relazioni, città e adolescenti con lo psicologo sociale Armando Toscano
- il 4 settembre dedichiamo uno sguardo al mondo del cinema con il critico e docente universitario Andrea Chimento
- l’11 settembre ultimo appuntamento con la scrittrice Nadia Terranova per immaginare come sarà la nuova normalità.
Ascolta le puntate
«Saremo migliori o peggiori?». Siamo partiti da questa domanda, cinque mesi fa, quando abbiamo cominciato questo podcast. Con il passare degli episodi quella domanda è scomparsa, non era più urgente: come l’idea stessa di un possibile cambiamento – dell’ambiente, delle relazioni, di noi come singoli e come comunità –, è stata travolta dalla realtà dei fatti.
Con Nadia Terranova, scrittrice, finalista al Premio Strega 2019 e originale osservatrice dei nuovi costumi di un’Italia smarrita, proviamo a raccontare in questa ultima puntata di “Domani” i mesi che sono alle spalle e, soprattutto, quelli che verranno affidandoci agli insegnamenti che arrivano dalla grande letteratura, perché «è in momenti di trasformazione come questo che bisogna leggere».
Tra film catastrofisti e documentari di denuncia, il cinema ha spesso anticipato la realtà o ne ha descritto le pieghe più oscure. In che modo racconterà, domani, il periodo e gli effetti della pandemia da Coronavirus? E quali conseguenze avrà sull’industria dello spettacolo questa crisi che non sembra affatto vicina alla conclusione? Lo abbiamo chiesto ad Andrea Chimento, uno dei critici più giovani e interessanti, che scrive sul “Sole 24 ore”. E la sua risposta è stata sorprendente.
Con lui, che ha anche pubblicato un saggio sulle influenze degli attentati dell’11 settembre 2001 sulla produzione cinematografica degli Stati Uniti, abbiamo parlato di creatività, di mascherine sui set, di sale in gravi difficoltà e, soprattutto, di streaming in tv. Sarà quello, sempre di più, il futuro dei film?
C’è un pensiero che, nonostante ci si sforzi, non riusciamo più a cancellare: per quanto il mondo che ci siamo costruiti intorno sia confortevole, nessuno di noi potrà più sentirsi davvero al sicuro. Nessuno. Nemmeno i più giovani, che per mesi i virologi avevano considerato praticamente invulnerabili, prima di un nuovo allarme sulla diffusione dei contagi anche tra gli under 25. Proprio adolescenti e ragazzi che nei giorni dell’emergenza hanno patito silenziosamente gli effetti collaterali del lockdown: l’interruzione dei rapporti sociali, la solitudine, l’istruzione a distanza, l’accettazione di regole e impedimenti. E soprattutto, l’incertezza sul futuro.
Ne abbiamo parlato con Armando Toscano, uno psicologo sociale specializzato in relazioni tra persone, famiglie e spazi di vita, virtuali o reali. Nelle settimane più difficili dell’emergenza, Toscano ha coordinato uno sportello di ascolto gratuito del Comune di Milano e due progetti dedicati all’inclusione di adolescenti difficili e ritirati sociali (i cosiddetti hikikomori). La sua osservazione del fenomeno e le sue riflessioni su come siano mutati stati d’animo e rapporti sociali nei mesi scorsi sono il punto di partenza per capire che cosa accadrà nei prossimi mesi.
Le nostre vite sono cambiate, e allo stesso modo è cambiato anche il linguaggio che usiamo. Siamo stati travolti dalle metafore belliche (la guerra dei medici-eroi contro il virus, nemico invisibile. Sono emerse nuove parole (“covidiota”, per esempio), altre sono riemerse da dizionari burocratici e démodé (è il caso di “congiunti”), altre ancora (come come migranti o braccianti) ci hanno fatto riflettere sull’uso di un linguaggio tutt’altro che inclusivo. La lingua, del resto, riflette i cambiamenti sociali ed è a sua volta in grado di influenzare il nostro modo di percepire la realtà. In che modo è accaduto durante la pandemia, e con quali conseguenze, a medio e lungo termine? Lo abbiamo chiesto a Federico Faloppa, che insegna Storia della lingua italiana e Sociolinguistica nel Dipartimento di Lingue moderne dell’Università di Reading, in Gran Bretagna, ed è uno dei maggiori esperti di linguaggio di odio.
«Per affrontare il domani avremo bisogno di riappropriarci del nostro tempo», dice il professor Faloppa, «che non è soltanto il tempo dettato dal consumo e dalla velocità. E dovremo avere una certa dolcezza nell’affrontare i problemi e una profondità nell’analizzarne le conseguenze».
«Non so se vorrei regalare malinconia, per far cullare chi ascolta nel ricordo del disagio che ha vissuto sei mesi prima. Probabilmente vorrei regalare speranza o un pensiero che sia stimolante, che solleciti le persone a muoversi senza che questo diventi per forza un atto politico». Per Gianluca Picariello, molto più conosciuto con il nome d’arte Ghemon, la pandemia è stata un’occasione per interrogarsi su che cosa significhi fare musica, crearla e suonarla dal vivo. Ecco perché proprio lui da alcune settimane è tra i cantanti in prima linea per difendere i diritti di una categoria che sembra ignorata dalle istituzioni.
A Ghemon abbiamo chiesto se riusciremo tranquillamente a riabbracciare uno sconosciuto sotto il palco di un “live”, se il futuro delle canzoni sarà sempre più digitale oppure in vinile – il caro, vecchio disco sul quale lui stesso ha pubblicato il suo ultimo album, in pieno lockdown. E soprattutto se cambierà il rapporto fisico, affettivo tra le star del pop e i loro fan.
Molti teatri, come i cinema, i musei e altri luoghi della cultura, hanno riaperto, ma sono ancora alle prese con le conseguenze del lockdown. Quasi metà dei cartelloni della scorsa stagione sono stati fagocitati dall’emergenza; le rassegne estive stanno ripartendo, ma per un numero di spettatori esiguo e ancora diffidente. Gli esercenti, le compagnie e tutto l’indotto sono vicini al crac economico, ed è molto difficile immaginare cosa accadrà nei prossimi mesi. Come cambierà il rapporto con la platea semivuota? In che modo il periodo di emergenza influirà sulla scrittura? Come si può evitare il fallimento di un intero settore: con un intervento più massiccio dello Stato oppure con un approccio imprenditoriale e privatistico? Ne abbiamo parlato con Davide Enìa, uno degli attori e drammaturghi più originali della scena teatrale italiana (ha vinto il Premio Ubu 2019 per il miglior nuovo testo per “L’abisso”), molto critico sulle scarse misure prese finora per sostenere lo spettacolo. «La prima conseguenza della pandemia», dice Enìa, «è la totale perdita di progettualità».
Come saranno le nostre identità post crisi? E i nostri vestiti, come comunicheranno chi siamo diventati e cosa hanno significato per noi quelle esperienze complicate? Sono le risposte a queste domande che ci porteranno di nuovo nei negozi e a far funzionare di nuovo fabbriche e sartorie. La moda è uno dei settori che più si stanno interrogando sul futuro di un’industria che negli ultimi anni è stata presa da una sorta di bulimia produttiva. E per la prima volta alcuni dei nomi più importanti, da Giorgio Armani ad Alessandro Michele, hanno deciso di rallentare, ridurre il ritmo forsennato di sfilate, collezioni e capsule.
L’emergenza sanitaria, insomma, è l’opportunità per un ripensamento. Con Gaia Segattini – fashion designer, imprenditrice con un proprio brand di maglieria, ma soprattutto divulgatrice sui temi del made in Italy e della manifattura sostenibile – parliamo di shopping online, di terzisti e piccole realtà costrette a produrre in fretta e a costi bassissimi (salvo poi non essere nemmeno pagate), di un nuovo modo di comunicare i brand, magari rinunciando all’improvvisazione degli influencer. E soprattutto immaginando quali abiti indosseremo domani. Perché durino oltre dopodomani.
“Domani” ritorna con una nuova serie di dialoghi con intellettuali, artisti e creativi, per immaginare che cosa potrà accadere nella cultura, nella società e nel costume quando la pandemia sarà finita. Il primo incontro è con Sandro Veronesi, vincitore per la seconda volta del Premio Strega con “Il colibrì” e uno degli scrittori con l’approccio più aperto e complesso, come ha dimostrato anche durante l’emergenza con alcune prese di posizione davvero originali. Dalla lettera di ringraziamento a Papa Francesco a nome di una trentina di artisti alla critica feroce nei confronti del mondo laico e di chi oggi è alla guida del Paese per la disattenzione verso l’arte, la cultura e l’istruzione, Veronesi affronta con preoccupazione alcune grandi questioni per le quali questo “periodo inaudito” potrebbe essere un’occasione di ripensamento.
Se c’è qualcuno che può parlare di come potrà essere il racconto della catastrofe, una volta che la pandemia sarà finita, Carlo Lucarelli è uno dei più indicati. Giallista, autore di noir ambientati al tempo del fascismo, grande narratore dei misteri italini pùi profondi, Lucarelli ha la capacità di usare il tempo che ci separa dai fatti che racconta – le trame segrete degli Anni 60, il terrorismo dei 70, il saccheggio degli 80 – per ricollegare i fili e farci vedere come siamo diventati nel frattempo. Esattamente quello che occorrerà nei prossimi mesi per capire se saremo diventati migliori o peggiori di prima; se avremo usato questo periodo di quarantena per imparare ad affrontare le nostre paure in modo diverso; se saremo in grado di trasformare lo choc che abbiamo vissuto (e che stiamo ancora vivendo, nonostante le riaperture), in uno strumento positivo, anche grazie alla letteratura.
Con Lucarelli si conclude la prima serie di conversazioni di “Domani”. Dal 3 luglio torneremo con altre otto voci per immaginare come potrà essere il futuro dopo questa pandemia. Ricominceremo con Sandro Veronesi, un altro importante scrittore italiano. E poi continueremo parlando di teatro con Davide Enia, di moda con Gaia Segattini, di musica con Ghemon, di cinema con Andrea Chimento, di parole dell’emergenza con Federico Faloppa, di adolescenti città e relazioni con Armando Toscano, di nuova normalità (sperando che arrivi presto) con Nadia Terranova.
Il Ceo di Microsoft, Satya Nadella, ha detto che la tecnologia ha compiuto in due mesi di lockdown una trasformazione che in tempi normali avrebbe richiesto due anni. Ma, allora, come potranno cambiare gli strumenti che avremo tra le mani in un futuro molto prossimo? E, di conseguenza, come cambieranno la scuola, il lavoro, le case, gli uffici, una volta che la pandemia sarà finita? E questa potrà essere l’occasione per creare un nuovo contratto tra l’uomo e l’ambiente?
Ne abbiamo parlato con Cristina Pozzi, di professione “future maker”, nominata dalla ministra dell’Istruzione nella commissione di esperti che dovrà ridisegnare la scuola all’insegna del digitale, e unica italiana tra gli Young Global Leaders eletti dal World Economic Forum 2019.
Come tutto il resto a ogni latitudine, anche lo sport si è fermato. Ora, tra mille cautele, prova a ripartire, ma senza pubblico: dopo mesi di repliche, quindi, forse rivedremo qualcosa di nuovo in tv. Potremo anche tornare a frequentare palestre e impianti sportivi, ma pochi per volta e a distanza di sicurezza, dopo che per settimane correre nel parco sotto casa era diventato materiale per giuristi e delatori.
Se questa è una ripartenza, e anche a tempo – come fanno capire i virologi che temono un rimbalzo dei contagi – bisogna essere molto ottimisti per credere che il domani sarà migliore, come dice Roger Federer in un messaggio dopo il rinvio anche del torneo di Wimbledon.
Come potrà essere, in realtà, questo domani? Con meno soldi e meno passione o magari con un po’ di spirito critico in più verso campioni fin troppo idolatrati? Lo abbiamo chiesto a Paolo Condò, che prima di diventare opinionista di Sky è stato un grande narratore di luoghi ed emozioni legati a quell’incrocio di corpi e anime che è lo sport.
Trasmissioni senza applausi né risate, star collegate su YouTube da casa, libri che non si vendono o non verranno pubblicati: l’industria culturale e dell’intrattenimento è tra quelle che hanno pagato di più la crisi causata dal coronavirus e che più di altre dovranno rivedere alcuni modelli finora di successo.
La pandemia ha accelerato alcune tendenze avviate già da tempo (i più giovani, abituati alle piattaforme on demand, hanno smesso definitivamente di guardare la tv, sostituendola con formati più brevi e pensati per un consumo digitale), ma ha anche tolto la dimensione epica del racconto: senza pubblico in studio, alcuni grandi show appaiono surreali, quasi grotteschi. E ancora più grave è la situazione dell’editoria, un mondo in buona parte alla soglia dell’estinzione che si aggrappa all’attesa del “grande romanzo italiano sul coronavirus” e sembra in crisi di creatività prima che di finanze.
Ma come sarà questo racconto definitivo della pandemia: un grande viaggio della fantasia o un diario minimo dei giorni della quarantena? E come sarà la televisione di domani: sempre più mobile e pensata anche senza il calore della gente dal vivo e l’improvvisazione della diretta? Lo abbiamo chiesto a Matteo B. Bianchi, scrittore e autore televisivo, che dal 1996 raccoglie in una rivista le voci emergenti della letteratura. E non ne è venuto fuori un quadro molto positivo.
Prima del lockdown, mangiavamo spesso fuori casa, cucinavamo sempre meno, ci mettevamo a posto la coscienza con i cibi biologici, e al massimo ci facevamo portare la cena a domicilio. La clausura ha ribaltato queste abitudini: secondo un’indagine della Doxa, il tempo che abbiamo passato in cucina in questi mesi è aumentato nel 46% dei casi, e addirittura “molto aumentato” per il 17% degli intervistati. Dal 16 febbraio al 15 marzo 2020 nei supermercati sono stati spesi circa 750 milioni di euro in più rispetto al 2019. Insomma, cucinare a casa e fare la spesa è diventato imprescindibile.
Non a caso, una delle cose che tanti di noi hanno detto di voler fare per prima, quando l’emergenza sarà finita, è andare a cena in un buon ristorante. Ma come sarà quel ristorante? Avrà i posti a scacchiera, come nelle foto che arrivano da Hong Kong, o preparerà solo cibi sottovuoto da asporto, consegnati dentro sacchetti da aprire a distanza? E cosa ci sarà dentro quei sacchetti? Che cosa mangeremo, sempre che le nostre tasche colpite dalla crisi economica ce lo permettano? Magari questa pandemia può essere l’occasione per rivedere la nostra dieta, per avere una nuova consapevolezza di quello che metteremo nel piatto: cibo sano, naturale, rispettoso dell’ambiente?
Lo abbiamo chiesto a Simone Rugiati, uno dei primi chef televisivi che ha cominciato a domandarsi con preoccupazione che cosa accadrà nei prossimi anni. Con lui si è parlato di sostenibilità, di spazi e luoghi per la ristorazione, di fiducia e chef stellati. E di quella che sarà la prossima frontiera dell’esperienza gastronomica.
Uno dei tanti effetti della pandemia è la fine dei concerti dal vivo – almeno per un bel po’ –, la chiusura dei teatri e dei cinema, l’incertezza sulle nostre vacanze. Torneremo in uno stadio per un live, in mezzo a migliaia di persone? Quali saranno le conseguenze per tutti quelli che vivono di musica – sopra e dietro un palco? Prenderemo un aereo senza guardarci intorno con sospetto? Affitteremo la casa di uno sconosciuto dall’altra parte del pianeta? Insomma, che cosa accadrà a quella che definiamo normalità? Ne abbiamo parlato con Daniele Cassandro, giornalista di “Internazionale” e acuto osservatore di fenomeni culturali, mentre le conseguenze economiche nel settore del turismo si fanno sempre più pesanti e uno dei modelli vincenti degli ultimi anni – quello di AirBnb -, basato sulla fiducia reciproca, è entrato in crisi.
Avvocatessa divorzista e scrittrice esperta di costume e cuori infranti, Ester Viola può aiutarci a trovare un po’ di risposte in questo momento in cui abbiamo bisogno di pensieri lunghi per capire che cosa accadrà dopo che questa pandemia sarà finita. «Non penso che succederà da noi quello che sta succedendo in Cina, dove si stanno moltiplicando i divorzi, e quindi scoppieremo tutti», dice l’autrice della newsletter “The Chat”. «Il talento della famiglia borghese è quello di restare uniti, di essere il tessuto economico e sociale del Paese: insomma, resteremo insieme perché è l’Italia che ce lo chiede». È invece Ester a chiedersi come finirà il mercato degli influencer, dopo questa pandemia, e se riusciremo ancora ad appassionarci alle vicende di personaggi come Harry e Meghan, ex reali sempre più distanti dalle nostre vite reali.
Mario Calabresi è un esperto di “mattine dopo”. Ci ha scritto un libro, per ragionare su come rialzarsi dopo una tempesta che ti sconvolge l’esistenza, come è stato per lui dover lasciare all’improvviso la direzione della “Repubblica”. È la persona giusta, quindi, a cui chiedere, per prima, di immaginare come sarà il giorno dopo la fine di questa pandemia. E come saremo noi, tutti: saremo migliori o peggiori? Ne verremo fuori completamente cambiati oppure resisteremo aggrappati alle vecchie abitudini? E soprattutto, andrà davvero tutto bene? In questa prima conversazione si parla di consapevolezza, di fiducia, del ritorno della serietà e della competenza. Ma anche delle prospettive del giornalismo, dell’importanza dei social network, della ritrovata capacità di Internet di unirci. E di una vigna nuova.