La trascrizione completa del sesto episodio del podcast Pompei. La città viva. The complete Italian transcription of Pompei. La città viva’s fifth episode.
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[SPEAKER PIOVENE] L’archeologia fa parte della vita napoletana; v’è una maniera di parlare dei ruderi che si trova soltanto qui. Grandi rovine esistono in altre parti dell’Italia e del mondo, ma l’andare per rovine a Napoli è qualcosa di unico, che non trova riscontro né a Roma né in Provenza: lo si fa senza uscire dal mondo d’oggi, talvolta con lo stesso spirito con cui si entra nei negozi a fare la spesa. Perciò le zone archeologiche del napoletano hanno una luce soggettiva, confidenziale, che le rende senza confronto.
Guido Piovene percorse l’intero Stivale per tre anni, fra il 1953 e il ’56. Il suo Viaggio in Italia, da cui è tratto questo brano, nacque come trasmissione radiofonica per la RAI, per poi diventare un classico della letteratura, ed è una delle più belle guide antropologiche del nostro Paese. Eugenio Montale, il poeta premio Nobel, lo definì «un viaggio di ricognizione di una completezza che non ha precedenti», un inventario di osservazioni di rara efficacia sulla gente d’Italia. Come in quest’altro passo:
[SPEAKER PIOVENE] Dicono che in ogni castello scozzese ci sia almeno uno spettro, ma che i padroni, anziché spaventarsene, lo vedano familiarmente come il gatto di casa. Accade qualcosa di simile con gli antichi a Napoli ed i segni che lasciarono della loro vita.
Piovene è stato uno degli ultimi scrittori italiani a sfidare la tradizione europea della letteratura di viaggio. Il suo reportage, tutto sommato, è un’interpretazione moderna dei leggendari resoconti del Grand Tour che fiorirono fra Sette e Ottocento. Con quelli condivide lo stupore, la curiosità e l’interesse per l’umanità incontrata, così come la direzione abituale dell’itinerario: da Nord a Sud. E naturalmente molte delle tappe. Fra le quali il luogo in cui abbiamo viaggiato idealmente insieme in questo podcast: la Pompei antica.
[SIGLA] Questo è Pompei. La città viva.
La fine, la scoperta, la rinascita. Il racconto di uno dei luoghi più affascinanti al mondo.
Un podcast del Parco Archeologico di Pompei, prodotto da Piano P in collaborazione con Electa. Io sono Carlo Annese.
Sesto episodio: Dal Grand Tour a Lonely Planet
[CESARE DE SETA] Il Grand Tour è innanzitutto una delle più grandi istituzioni della Europa moderna, perché la regina Elisabetta d’Inghilterra stabilì che tutti gli alti funzionari del regno, oltre che naturalmente i nobili che ne avevano i mezzi, dovevano andare a fare questo giro per l’Europa la cui meta privilegiata era l’Italia. E Roma era naturalmente la meta obbligata. E nel corso del Seicento emerse, proprio grazie agli inglesi, Venezia.
Cesare De Seta, professore emerito di Storia dell’Architettura all’Università Federico II di Napoli, ha dedicato al Grand Tour numerosi saggi, fra i quali il fondamentale L’Italia nello specchio del Grand Tour.
[CESARE DE SETA] Nel Settecento fu Napoli che emerse, perché Napoli era la più grande città d’Europa, dopo Parigi, quindi anche una grande capitale europea. E offriva un sito meraviglioso e meraviglie, che andavano dal Vesuvio ai Campi Flegrei, e da tutte le ricchezze di monumenti, di chiese, di conventi, di cui era dotata la città. Per quanto riguarda la fortuna di Napoli nel ‘700, non c’è dubbio alcuno che la fortuita scoperta di Ercolano, a partire dal 1738, fu un’ascesa continua. E dieci anni dopo, la scoperta di Pompei.
Dunque, Pompei non è sempre stata una tappa canonica del Grand Tour. Se non altro perché, fino ai primi scavi del 1748, e anche un po’ oltre, se ne ignorava l’esistenza, mentre i grandtourists percorrevano le vie italiche da quasi due secoli.
[CESARE DE SETA] Soltanto nel 1756 venne fuori un’iscrizione in cui si parlava di Pompei e quindi venne fuori, non solo dei reperti, ma una vera e propria città, cosa naturalmente che fece il giro del mondo. È inutile dire che questa scoperta fu una specie di calamita per tutta l’Europa dei Lumi: a Berlino, a Londra, a Parigi, soprattutto, fu una specie di viaggio continuo alla visita di questa città che veniva fuori, che era un unicum, perché a Roma ci sono i Fori, c’è il Colosseo, ma non c’è una città palpitante, con le sue case, con i suoi affreschi, con le sue botteghe, con le sue strade.
Ma l’eccezionalità della scoperta di Ercolano e Pompei, e il fascino degli scavi erano tali che ben presto la visita alle città del Vesuvio diventò un momento imprescindibile del viaggio iniziatico in Italia di tanti europei, e tale è rimasta a lungo, da Goethe su fino a Picasso e Freud. Viaggiatori, artisti, scienziati e intellettuali cercavano nel Belpaese cose introvabili altrove: l’educazione alla bellezza, quella luce così diversa dalla luce del Nord, una popolazione che appariva esotica agli occhi della buona società straniera, e ovviamente le vestigia di un’antichità quasi mitica.
[ANNA OTTANI CAVINA] Quindi c’è anche una geografia del Grand Tour che cambia profondamente.
Questa è Anna Ottani Cavina, docente emerito di Storia dell’arte alla Johns Hopkins University di Bologna, e anche lei studiosa del Grand Tour.
[ANNA OTTANI CAVINA] C’è un’eclissi di Venezia, per esempio, completa. E nella seconda metà del Settecento questa scoperta del Sud è progressiva e senza soste. Tutto il mondo tende ad andare verso Sud, prima di tutto per l’antico, c’è poco da dire, insomma.
E nulla sarà più come prima. La percezione cambia in maniera immediata: la febbre di Pompei contagia tutto il mondo conosciuto.
[ANNA OTTANI CAVINA] Umberto Eco poneva sempre una domanda ai suoi studenti: quando finisce un secolo? Perché un secolo non finisce mai nel ’99. Cioè il secolo scorso probabilmente è finito con la caduta del Muro, quindi prima; l’Ottocento è finito nel 1905-’06 con le avanguardie, con Einstein, con altre cose. Ecco, qui è un caso di un secolo spaccato a metà, e non è forse la pace di Aquisgrana che sta a metà, ma per noi è proprio la scoperta di Ercolano e Pompei. Cioè tutta la cultura rococò, tardo barocca, incantevole, femminile (se vogliamo dire), venne immediatamente archiviata perché questa resurrection des villes (sono i viaggiatori che dicono) comporta un gusto che si travasa poi non solo nella cultura ma nella vita: le donne vanno scalze, a Parigi si vestono con delle tuniche freddissime e bianche, perché c’è anche una identificazione molto forte tra questo momento antico di purezza, moralità, eccetera, e queste attese di rigenerazione della cultura contemporanea.
Nella seconda metà del Settecento, Pompei, Ercolano, Paestum incarnano gli ideali neoclassici e, scoperta dopo scoperta, contribuiscono a definirli. La svolta arriva con Johann Joachim Winckelmann: nel 1762 compie la prima visita, e tra il 1764 e il 1768 si occupa anche della catalogazione degli scavi. Oggi lo definiremmo un influncer di grande successo, allora fu fondamentale nell’alimentare l’aura di eccezionalità che si stava formando attorno a Pompei.
[ANNA OTTANI CAVINA] Io trovo che Winckelman è un caso che va riscattato, perché non è questo teorico noioso. Lui aveva una scrittura superlativa e fortemente evocativa. È il caso, unico, di un critico che non lavora sulle opere, ma in qualche modo spalanca verso un mondo che deve venire: quando lui parla delle danzatrici di Ercolano che sono fluide come il pensiero, leggere come baciate dalle grazie, evoca questa cultura ellenistica raffinatissima che transita nel mondo di oggi. E soprattutto con una conoscenza relativa di questo mondo, perché l’accesso agli scavi era limitatissimo, e quindi era tutto un mondo molto filtrato: non si poteva disegnare davanti alle opere.
Pompei ed Ercolano rivelavano dal vivo ciò che non si poteva osservare in nessun altro sito archeologico: la vita vera degli antichi, di cui al massimo, fino a quel momento, si era letto sulle fonti classiche. Non solo. Il pensiero della tragedia improvvisa e titanica avvenuta nel 79 dopo Cristo era sempre presente in chiunque si avvicinasse agli scavi: un’epica della fine, tanto terrificante quanto affascinante, che arrivava a toccare le corde più intime dell’anima collettiva. Non siamo ancora allo sturm und drang che si studia alle Superiori, ma il vento del nascente romanticismo stava cominciando a soffiare.
A Pompei, arrivarono in tanti. Nel 1770 anche un Mozart quattordicenne, come documentano le lettere del padre Leopold. Scese dalla carrozza davanti al Teatro Grande, che all’epoca era l’accesso agli scavi, e visitò il Tempio di Iside. Riportato alla luce solo quattro anni prima, il Tempio era in ottimo stato di conservazione e documentava il gusto diffuso nella Roma antica per la pittura egiziana. Sono in molti a ritenere che l’emozione suscitata nel giovane Mozart sia stata una delle fonti di ispirazione per il suo celeberrimo Flauto magico, che sarà rappresentato per la prima volta ventuno anni più tardi.
[LUIGI GALLO] A partire dalla scoperta così repentina e anche immediatamente diffusa nella memorialistica dell’epoca, Pompei diventa una meta prediletta del viaggio.
Questo è Luigi Gallo, uno dei maggiori esperti della rappresentazione di Pompei nell’arte e dei suoi cambiamenti nel corso della storia.
[LUIGI GALLO] Non era facile arrivarci, soprattutto non era facile avere l’accesso e il lasciapassare per poter entrare nel sito, che (ricordiamo) apparteneva alle proprietà del re di Borbone. Quindi il re rilasciava dei lasciapassare con una certa difficoltà per permettere alle persone – eruditi, intellettuali e qualche artista – di fare questa visita negli scavi.
Anche in questo caso, come nel secondo episodio, vorrei chiedervi un esercizio di fantasia, per avere un’idea di come Pompei si presentasse a un visitatore del Settecento. Non era certo il vasto museo a cielo aperto che oggi i turisti possono percorrere scattando selfie. Anche ai pochi fortunati che ricevevano il permesso era vietato eseguire disegni e schizzi negli scavi. Eppure, con una forzatura modernista, possiamo dire che l’immaginario di Pompei diventò ugualmente virale grazie alla diffusione clandestina di illustrazioni rubate. I pirati di YouTube dei giorni nostri, insomma, non hanno inventato proprio nulla.
[LUIGI GALLO] I visitatori che possedevano il lasciapassare erano in realtà accompagnati da guardie, quindi c’era un controllo diretta, era molto complesso, ma qualcuno di fatto riesce a rubare il tempo per eseguire degli schizzi, quindi il copyright dell’immagine di Pompei appartiene al re e il re istituisce una Real Accademia che per studiare i siti e per comunicare al mondo l’immagine di Pompei. Quindi escono questi volumi illustrati delle Antichità di Ercolano di Pompei con un ritmo che viene considerato troppo lungo, troppo lento rispetto alla curiosità invece sempre crescente della cultura europea.
[SPEAKER GOETHE] Domenica andammo a Pompei. Molte sciagure sono accadute nel mondo, ma poche hanno procurato altrettanta gioia alla posterità.
Sono le parole di un viaggiatore eccellente, che segnano, come ricorda il professor Cesare De Seta, un’inversione di tendenza e sanciscono definitivamente la fortuna del Sud d’Italia, e in particolare di Ercolano e Pompei, nella cultura europea: è Johann Wolfgang von Goethe, il cui Viaggio in Italia diventerà la guida letteraria per il viaggiatore romantico.
[CESARE DE SETA] Goethe, che giunse a Roma alla ricerca dell’antico, era un giovane che era fuggito da Charlotte Von Stein, che era la sua amica a Weimar, per liberarsene, e decise di lasciare anche il suo ruolo pubblico che aveva con il principe di Weimar. E quando giunse a Napoli, una delle sue mete privilegiate furono i Campi Flegrei, che erano importantissimi, e ovviamente anche Ercolano e Pompei. In qualche modo stravolse quelli che erano gli itinerari tradizionali che molto spesso trascuravano la molteplicità del mondo che offriva Napoli: cioè la ricerca mineralogica e geologica, la ricerca botanica, di cui Goethe era uno straordinario cultore, e naturalmente il mondo antico. Tant’è vero che noi abbiamo, nei suoi tremila disegni che lui fece in Italia, tanti disegni che riguardano queste antichità.
Tuttavia, l’impressione del grande intellettuale tedesco, nel suo viaggio del 1787, è venata di sensazioni contrastanti:
[SPEAKER GOETHE] Pompei reca stupore poi ad ognuno, per le sue dimensioni ristrette e meschine. Sono strettissime le strade, tuttoché fornite da ambo i lati di marciapiedi; le case piccole, senza finestre, e le stanze illuminate unicamente dalle porte, le quali si aprono nelle corti, ovvero nei portici che circondano queste. Gli edifici pubblici stessi – il foro presso la porta, il tempio, una villa pure presso questo – si direbbero piuttosto trastulli da ragazzi, modelli in piccole dimensioni di edifici, anziché veri edifici.
Artista, letterato, geologo, botanico, Goethe accompagna i suoi appunti di viaggio a disegni e pitture. E proprio uno dei suoi acquerelli è uno dei primi esempi in cui il tradizionale paesaggismo realistico lascia il posto alla “ricostruzione” del momento più tragico e conturbante della storia di Pompei: la sua fine. Il Vesuvio dello schizzo di Goethe ha forma moderna ed è sicuramente rappresentato dal vero, ma il vulcano in attività è osservato con occhi che volgono al passato, a cercare l’attimo fuggente che precedette l’eruzione dell’anno 79. Già qualche anno prima, nel 1780, lo scozzese Jacob More aveva dipinto Mount Vesuvius in Eruption, un Vesuvio con una fiammata sparata verso il cielo. Tutta immaginazione? Non proprio, a giudicare dai tanti disegni preparatori dal vero che sono disponibili. Di nuovo la professoressa Anna Ottani Cavina.
[ANNA OTTANI CAVINA] Il caso di Pompei, in questo caso, è un po’ nei giorni nostri come sarebbe il Titanic. Sia nel Settecento che nel Romanticismo ci sono anche delle polarità diverse dal classico. Anzi, la ricchezza del Settecento è il fatto che convivano. E nel Settecento c’è questa dimensione che è il sublime, cioè l’esaltazione di tutto quello che è il buio, il vuoto, l’oscuro, una bellezza anticlassica, il terrore: cioè elementi molto forti che fanno sì, per esempio, che Napoli abbia una centralità come non ha mai avuto. Perché Napoli ha tutti questi aspetti, cioè la gente ci va per l’antico, ci va per la bellezza della natura e ci va per il Vesuvio, che mai è stato scatenato e attivo come nel Settecento. Queste eruzioni rappresentano, appunto, questa idea di bellezza che si contrappone al classico, una bellezza che dà paura, che dà angoscia, che dà terrore, quindi il riscatto di territori che mai prima gli artisti avevano dipinto: per esempio, le Alpi.
A cavallo dei due secoli, dunque, cambiano la sensibilità e lo sguardo con cui si osserva Pompei. E cambia il Grand Tour, che con le guerre napoleoniche subisce un duro colpo, anche se lascia un’eredità antropologica e lessicale non indifferente: da lì, infatti, deriva il turismo, come attività e come parola. Per tutto l’Ottocento, comunque, Pompei resta tra le mete preferite. I taccuini di viaggio lasciano il posto alle guide turistiche, e fra tutte spicca per autorevolezza e diffusione il Baedeker, pubblicato in Germania in più lingue, il primo libretto rosso divenuto famoso nella storia. L’avrete visto nel film Camera con vista di James Ivory, guidare appunto Lucy e Charlotte nel loro folgorante viaggio in Toscana. Ed è lo stesso che nel 1911 teneva in mano lo speciale viaggiatore di cui vi ho parlato nel secondo episodio: il giovane Le Corbusier. L’architetto svizzero scelse Pompei come tappa finale del Voyage d’Orient. Come ci informa il Baedeker originale che abbiamo consultato, ha pagato un franco e 30 per viaggiare in prima classe da Napoli a Pompei, e due franchi e mezzo per entrare negli scavi. Se ha seguito i consigli del libretto rosso, ha cercato di evitare le guide abusive e si sarà orientato fra gli scavi dell’epoca sulle accurate mappe ripiegate nel libro.
Ma stiamo andando molto oltre. Fermiamoci ancora un po’ agli inizi dell’Ottocento.
I sassi lanciati da Winckelman, da Goethe e dagli altri illustri viaggiatori produssero cerchi nell’acqua che si allargarono fino a lambire territori sempre più estremi. Il fascino di Pompei si era ormai consolidato, e la fame di notizie, immagini, storie e curiosità andava alimentata. Sono fondamentali, in questo senso, le incisioni di Giovan Battista Piranesi, pubblicate postume, fra il 1805 e il 1806 a Parigi, dal figlio Francesco, come spiega Anna Ottani Cavina.
[ANNA OTTANI CAVINA] Piranesi, usando uno strumento come l’incisione – che costava molto poco, che era replicabile, che poteva essere esportato in tutta Europa – è quello che veramente dà la stura a questo innamoramento per l’antichità. Naturalmente è un’antichità decisamente romantica (inutile dire pre-romantica, ormai assolutamente romantica), e non sono solo le tavole su Pompei: è tutto il mondo antico, anche barbarico, che lui rilancia e legittima molto prima.
E poi c’è la musica, il linguaggio forse più universale. La sera del 19 novembre 1825, al Teatro San Carlo di Napoli va in scena il melodramma L’ultimo giorno di Pompei, composto da Giovanni Pacini su libretto di Andrea Tottola. Oggi l’opera è pressoché dimenticata, ma al tempo fu un clamoroso successo. Per due motivi, soprattutto: l’argomento, senza dubbio, e poi le scenografie, curate personalmente da Antonio Niccolini, direttore delle scene del San Carlo e grande conoscitore di Pompei.
[LUIGI GALLO] Siamo in piena Restaurazione, siamo in pieno romanticismo, un momento in cui la filosofia del sublime, che aveva in qualche modo identificato proprio in Pompei uno dei luoghi principali, no?, questa città fiorente sepolta dalla furia del vulcano, ecco nell’Ottocento questo questo sublime si carica anche di altre letture anche politico religiose per cui i pompeiani sono un po come i pagani che pagano in qualche modo il prezzo della loro dissolutezza rispetto al mondo cristiano.
Tra gli spettatori di una delle repliche al San Carlo, molto probabilmente c’era Karl Brjullov, pittore russo che in quel periodo viveva a Napoli con il fratello. Pochi anni più tardi, nel 1827, verrà incaricato dal mecenate Anatolij Demidov di dipingere una tela ispirata allo stesso tema dell’opera lirica: L’ultimo giorno di Pompei. Brjullov ci impiegherà sei anni – tre in più di quanto concordato col committente – ma realizzerà un capolavoro, che sarà esposto in diverse città d’Europa, prima di essere collocato in una delle sale principali del Museo Russo di San Pietroburgo. L’enorme tela – 4 metri e mezzo per 6 e mezzo – dimostra un’attenzione spasmodica per l’esattezza dei dettagli (è documentato che Brujllov passò molto tempo a Pompei) ed è ambientata, proprio come l’ultima scena del melodramma di Pacini, nella Via dei Sepolcri. Rappresenta la catastrofe, il momento estremo dell’eruzione del Vesuvio, gli abitanti di Pompei che cercano in qualche modo di fuggire dalla pioggia di lapilli, mentre la città, attorno a loro, sta crollando.
[LUIGI GALLO] Il catastrofismo a Pompei è parte dell’immaginario moderno, cioè a Pompei noi moderni troviamo l’antico ma troviamo anche il dramma della fine. Quindi la riscoperta dell’antica città si accompagna costantemente alla scoperta drammatica della morte. Pensate Fragonard che visita il sito, una quindicina di anni dopo la scoperta, rappresenta subito un disegno, che peraltro ha avuto una grandissima fortuna: un visitatore accompagnato da una visitatrice che sta svenendo di fronte alla scoperta di uno scheletro. Quindi il catastrofismo fa parte proprio dell’emozione della riscoperta di Pompei.
Non ci sono più solo il turismo colto, la ricerca archeologica condotta con nuovi metodi e l’attrazione per il valore storico e architettonico dei resti e degli affreschi. Il fascino del momento fatale, le suggestioni dell’eruzione e della fine trasformano Pompei in un bestseller. Il primo a scriverlo è Edward Bulwer-Lytton, nel 1834, con l’inevitabile titolo Gli ultimi giorni di Pompei.
Quel romanzo ispirerà nei decenni successivi un adattamento teatrale, una miniserie TV e ben sette film: il primo risale ancora all’epoca del cinema muto, fu realizzato da Ambrosio e Maggi ed è considerato il primo film storico-epico italiano. Edward Bulwer-Lytton, peraltro, era molto popolare ai tempi ed è passato alla storia anche per un’altra cosa: la frase che apre un suo romanzo precedente, ambientato in Inghilterra: “Era una notte buia e tempestosa”. Vi dice qualcosa?
La letteratura, insomma, come un sismografo, registra rapidamente la mutazione della sensibilità intorno alla città del vulcano…
[PAOLA VILLANI] … diventa una potente metafora della modernità, di una modernità in cui la possente Natura – che è la vera dominatrice della sensibilità romantica – qui, diciamo, c’è Natura contro Storia.
Lei è Paola Villani. Insegna all’università Suor Orsola Benincasa di Napoli e ha studiato, in particolare, le influenze di Pompei sulla letteratura dell’Otto e del Novecento, a partire dalla Ginestra di Giacomo Leopardi, di cui vi ho già parlato nel terzo episodio.
[PAOLA VILLANI] Nell’antica querelle tra natura e storia, ecco prevalere in modo decisivo la natura. Ovviamente questa potente metafora della modernità viene declinata nella letteratura alta in sensi filosofici – appunto La ginestra –, ma invece nella letteratura popolare viene in qualche modo confezionata anche con un che di moralismo addirittura, cioè questa tragedia – pensiamo al capolavoro di Lytton, ma non solo questo – si collega anche al racconto popolare della Pompei della lussuria, e quindi questa articolazione del tragico evento quasi a voler punire l’umanità per i suoi peccati.
La natura, dice Paola Villani, può annichilire in un attimo civiltà millenarie, ma dagli scrittori di metà ‘800 viene anche paragonata ai peggiori comportamenti dell’uomo, come le guerre o i tumulti repressi nel sangue. È del 1857, per esempio, il viaggio a Napoli di Herman Melville: l’autore di Moby Dick descriverà quei giorni di tensione cittadina sotto Fernando II di Borbone in un poemetto dal titolo Napoli al tempo del Re Bomba, in cui paragona i colpi di cannone contro i quartieri popolari al tuono devastante del Vesuvio. E a proposito di Pompei scriverà:
[SPEAKER MELVILLE] “Che si sia vivi o morti non fa differenza. Pompei è un sermone incoraggiante. Amo più Pompei che Parigi”.
[PAOLA VILLANI] Nel corso dell’Ottocento i percorsi dell’immaginario, anche di un immaginario popolare, prendono questa piega: Pompei articolata come la distruzione di Pompei. Quindi si lavora sugli ultimi giorni o sull’ultimo giorno di Pompei. Quindi non è più un luogo ma un evento. Pompei – eruzione – Vesuvio è un trittico che si forma e che è inscindibile, quindi il nome, la fama di Pompei è legata inscindibilmente all’eruzione del 79 dopo Cristo.
Se Giacomo Leopardi, come vi ho raccontato nel terzo episodio, il vulcano lo ha visto più volte, c’è una poetessa americana affascinata dalle letture sull’eruzione del 79 dopo Cristo che negli anni Sessanta dell’Ottocento scrive dei versi senza mai aver messo piede a Pompei. Sono versi di una modernità assoluta, sintesi perfetta di molte delle sensazioni che riempivano i diari dei viaggiatori in visita a Pompei. Lei si chiama Emily Dickinson, e sarà considerata tra i maggiori lirici moderni:
[SPEAKER DICKINSON] Non ho mai visto “Vulcani” –
Ma, quando i Viaggiatori narrano
Come quei vecchi – flemmatici monti
Di solito così calmi –
Serbino dentro spaventose Artiglierie
Fuoco, e fumo, e cannone,
Divorando Villaggi a colazione,
E terrorizzando gli Uomini –
Se la tranquillità è Vulcanica
Nel volto dell’uomo
Quando nel momento di una pena Titanica
I lineamenti mantengono il loro posto –
Se a lungo l’angoscia che cova sotto la cenere
Non uscirà in superficie –
E il palpitante Vigneto
Nella polvere, sarà trascinato?
Se qualche amatore dell’Antichità,
In un Rinnovato Mattino,
Non griderà esultante “Pompei”!
Alle Colline ritorna!
Per molti intellettuali e scienziati il contatto con le antichità pompeiane è un viaggio nelle profondità dell’uomo. Per Sigmund Freud più che per chiunque altro, ovviamente. Nel 1896, grazie a un congresso in Italia, il padre della psicanalisi scopre una passione che lo accompagnerà per tutta la vita: quella per l’archeologia. Una decina di anni più tardi prenderà casa a Pompei e scriverà un saggio in cui, usando appunto una metafora archeologica, affermerà:
[SPEAKER FREUD] “Lo scavo nell’inconscio appare un viaggio tra le rovine, per dissotterrare il paesaggio interiore coperto dalla lava della rimozione”.
E dopo di lui, è la volta anche di Pablo Picasso. Di nuovo Luigi Gallo.
[LUIGI GALLO] Pompei, a partire dal 1861, diventa pubblica in qualche modo, si paga un biglietto per entrare. Ecco quindi molti sono gli artisti che ci vanno, da Renoir a Le Corbusier, e Picasso va a Pompei la prima volta nel marzo del 1917, accompagnato dal ballerino Leonid Massine e da Jean Cocteau, con il quale stava intraprendendo questo viaggio in Italia, e a Roma in particolare, per lo spettacolo Parade, un balletto cubista, un balletto modernissimo che avrebbe debuttato di lì a poco.
Picasso non scrive nulla della sua permanenza, ma compare in foto diventate poi storiche, alcune scattate dallo stesso Cocteau. E lascia pennellate, suggestioni, colori sui suoi lavori coevi, a testimonianza del fascino che Pompei, la pittura pompeiana, la cultura e la gente di Napoli esercitano sulla sua creatività.
[LUIGI GALLO] La riscoperta di Pompei, e in generale della grande pittura antica, è anche per Picasso una conferma della vitalità delle fonti mediterranee della pittura e dell’arte. Lui, il più grande artista, il rappresentante più alto di questa reinterpretazione moderna delle fonti antiche, a Pompei chiaramente si inebria della quotidianità, della ricchezza di quest’arte bella e nello stesso tempo così spontanea, alta e naturale nello stesso momento. E Pompei torna in maniera preponderante nella pittura di Picasso: in particolare il dipinto Due donne corrono sulla spiaggia sembra rifarsi nella sua composizione alle grandi megalografie della Villa dei Misteri.
Picasso, diceva prima Luigi Gallo, nel 1917 è in Italia perché sta lavorando alla scenografia di Parade, un balletto cui offrirà come sipario la più grande tela dipinta nella sua vita: 17 metri per 10. Una scena vitale e unica, in cui i riferimenti alle rovine e al suo colpo di fulmine per la commedia dell’arte e per la vita a Sud sono innumerevoli.
[LUIGI GALLO] Parade, in realtà, si compone di due parti distinte. Esiste un grandioso sipario che resta, è conservato a Beaubourg e rappresenta una compagnia teatrale seduta intorno a un tavolo, come dopo uno spettacolo, in cui tutti i personaggi della commedia dell’arte si riposano dopo uno spettacolo. Alle spalle dei personaggi compaiono delle rovine classiche e sullo sfondo questa montagna che nient’altro è che un’evocazione del Vesuvio. All’interno invece dello spettacolo Parade, alle spalle delle figure che stanno danzando realmente, compare una meravigliosa e aggraziatissima danzatrice con un tamburello in mano che riprende proprio le figure svettanti delle danzatrici della villa di Cicerone.
Nel 2017, un secolo esatto dopo la sua prima visita, Picasso tornerà a Pompei. Non in carne e ossa, ovviamente, ma proprio con quella incredibile tela, esposta all’Antiquarium e poi al museo di Capodimonte.
[SPEAKER GILMOUR] Pompei è un posto magico. Quando sono arrivato ieri ero come sopraffatto, come se non ci fossi mai stato prima. Sono venuto qui dieci anni fa, con i miei figli, per fargli vedere l’arena. Ma vedere ora tutte queste persone mi ha fatto un certo effetto. Dopotutto questo è un posto infestato dai fantasmi, in modo amichevole.
In questi sei episodi abbiamo provato a condensare secoli di storia in mezz’ora o poco più. Abbiamo attraversato Pompei e gravitato nella sua orbita, toccando l’arte, la musica, la letteratura colta e quella di evasione. Poteva, forse, mancare la colonna sonora del secondo Novecento, e cioè il rock? Queste erano, appunto, le frasi che David Gilmour, chitarrista e voce dei Pink Floyd, ha pronunciato a luglio del 2016 ricevendo la cittadinanza onoraria, prima del suo concerto nell’anfiteatro di Pompei.
Gilmour c’era già stato molti anni prima, nel 1971, insieme ai Pink Floyd, per registrare il mitico Live at Pompeii: 4 giorni di riprese, in quello stesso anfiteatro, ma completamente vuoto. Una pietra miliare nella storia del rock. Se ci avete fatto caso, abbiamo aperto questo episodio con le presenze di Piovene, e ora ritroviamo altri fantasmi. Chissà se quella sera di luglio del 2016, mentre le strade antiche venivano riempite dalle note di One of these days, unico pezzo in comune fra le scalette dei due concerti, David Gilmour ne ha sentito il soffio.
Qualcosa di simile dev’essere successo su un altro famoso set, cinematografico stavolta, parecchio tempo prima. Nel 1959, a Cinecittà, durante la lavorazione dell’ennesima versione de Gli ultimi giorni di Pompei, il regista Mario Bonnard si ammalò. Per proseguire le riprese fu chiamato un aiuto regista trentenne che si stava facendo notare nel mondo del cinema, ma che poi non sarebbe nemmeno comparso nei titoli di coda. Avrebbe però avuto modo di rifarsi, ampiamente, firmando alcuni dei più celebri film della storia del cinema, da Giù la testa a C’era una volta il West. Quel giovane aiuto regista prestato a Pompei si chiamava Sergio Leone.
Bene, il nostro Grand Tour di Pompei volge al termine. Ci lasciamo alle spalle le rovine, per alloggiare al Grand Hotel o all’Hotel Diomede. Ceneremo, alla modica cifra di 2 franchi e mezzo, al ristorante Vesuvio, per poi proseguire verso Paestum o la Sicilia. Così, almeno, consigliava al giovane Le Corbusier, in viaggio all’inizio del Novecento, il Baedeker, un marchio tanto famoso da essere diventato sinonimo universale di “guida turistica”. Oggi la scelta per il viaggiatore è sicuramente più ampia, anche se un leader indiscusso del mercato c’è. Nel 2019 quattro guide di viaggio ogni dieci comprate in Italia erano Lonely Planet, l’editore australiano che ha contribuito a farci conoscere il mondo. E il fascino dei luoghi che abbiamo cercato di raccontarvi è ancora intatto, se è vero che la guida Italy è costantemente tra le prime venti più vendute nel pianeta.
[LUIGI FARRAUTO] Ora credo che l’equivalente del Grand Tour sia davvero fare l’Inter Rail o, che ne so, il viaggio in Thailandia, nel Sud-Est, quindi andare a sperimentare una realtà nuova che non si conosceva: quello era un po’ lo spirito del tempo, no? Immaginiamoci com’era allora, quindi appena riscoperto, quindi ancora più selvaggio: deve aver evocato, secondo me, gli stessi scenari che evoca per noi andare ad Angkor Wat, in quelle rovine che poi sono dall’altra parte del mondo, di un mondo decisamente più piccolo, adesso, se vogliamo, in termini di facilità di esplorazione.
Questo è Luigi Farraùto, firma di Lonely Planet e autore di una guida su Pompei, di cui è grande appassionato, in uscita nella primavera del 2021.
[LUIGI FARRAUTO] Me ne sono particolarmente innamorato perché davvero una città intera di quell’epoca a portata di mano è un regalo davvero prezioso, nella disgrazia poi che lo ha fatto avvenire. Per molti anni ci sono state una serie di polemiche, se ne parlava solo per crolli o malgestione. Un po’ merito anche del grande lavoro che ha fatto Osanna, negli ultimi anni, in verità, Pompei a tutti gli effetti ritorna a essere quello che è: una delle rovine archeologiche più importanti al mondo.Visitarla vuol dire visitare la doppia vita di Pompei: quella che è finita nel 79 con l’eruzione del Vesuvio e quella che è rinata a metà del Settecento quando sono iniziati gli scavi.
A questo punto, non resta che tornare a Pompei o magari visitarla per la prima volta, appena sarà possibile. Perché, come vi abbiamo raccontato e come dimostrano le ultime scoperte, è una città in perenne mutamento. E offre continuamente straordinari motivi di interesse.
[LUIGI FARRAUTO] Sicuramente le ultime scoperte sono un incentivo al racconto, quindi un qualcosa di nuovo, qualcosa che prima non c’era e che… tanto le visite a Pompei sono così, sono sempre diverse: questa città ha una vita propria, quindi ci sono alcune cose che aprono, alcune cose che chiudono, ma non ci si annoia mai. Quindi ci si può andare anche tre, quattro, cinque volte di fila e vedere paradossalmente sempre delle cose diverse.
Cose che ci fanno capire chi siamo: perché, sì, Pompei ci parla di Roma Antica, ma, come osserva Maurizio De Giovanni, il popolare scrittore napoletano che ha un profondo legame con i luoghi di Pompei, dice molto anche di noi.
[MAURIZIO DE GIOVANNI] Secondo me, dice che siamo sostanzialmente gli stessi. Quella città, con i suoi mercati, con le sue case, con la sua differenza fra l’alta borghesia, la borghesia commerciale, e quello che una volta si chiamava proletariato, che era i suburbi, che era la Pompei popolare, sono state fissate nella loro distanza, tra uno stato e l’altro con assoluta evidenza. In effetti ricalcando quella che sarebbe la città oggi, se la si fotografasse – e speriamo che non avvenga mai – nella stessa identica maniera.
Il nostro racconto termina qui. Abbiamo camminato fra le strade, ammirato le domus; ne abbiamo sussurrato i segreti, conosciuto gli abitanti; ci siamo intrufolati nei lupanari, soffermati fra botteghe e taverne. Abbiamo osservato il Vesuvio e la gente che ci vive accanto. E soprattutto abbiamo conosciuto donne e uomini che contribuiscono ogni giorno a preservare Pompei dallo scorrere del tempo, a renderla ancora più straordinaria. A mantenerla viva.
[FINE]