2. Sapevano tutto, ma non hanno fatto niente
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Da almeno quarant’anni, alcune delle più grandi compagnie petrolifere al mondo sanno che le loro attività sono alla base dei cambiamenti climatici. Addirittura nel 1959 lo scienziato Edward Teller (il padre della bomba atomica) fu invitato a un convegno per il centenario dell’American Petroleum Institute e tenne un discorso premonitore sulla correlazione tra combustibili fossili, anidride carbonica e riscaldamento globale.
Eppure, quelle compagnie non hanno fatto nulla (e tuttora fanno molto poco) per cambiare il proprio modello di business. Anzi: hanno finanziato e diffuso la disinformazione sulla scienza del clima, e ancora di recente, mentre i leader di 200 Paesi cercavano nuovi accordi alla Cop26 di Glasgow, i loro responsabili si sono nascosti dietro una cortina di parole durante un’audizione al Congresso degli Stati Uniti.
In questo episodio, insieme a Marco Grasso (professore di Geografia Economica e Politica all’Università di Milano-Bicocca) e Sabina Zambon, professore di scoprirete i nomi e le responsabilità di queste aziende, grazie anche alle testimonianze dei giornalisti Stefano Vergine e Serena Tarabini.
L’illustrazione della cover è di Studio Pym.
Ascolta “Benzina sul fuoco”, il podcast di Marco Grasso e Sabina Zambon, prodotto da Piano P, che approfondisce i temi dei cambiamenti climatici con rigore, dati, lavori scientifici e la partecipazione di esperti autorevoli. La serie è disponibile su tutte le piattaforme: iscriviti per rimanere aggiornato sulle nuove puntate in uscita nelle prossime settimane.
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“Benzina sul fuoco” viene diffuso da Piano P con la partecipazione di FIAB Italia Federazione Italiana Ambiente e Bicicletta, Cittadini per l’Aria onlus, “Il colore verde” la newsletter settimanale sulla crisi climatica a cura di Nicolas Lozito e ForEst – Studio Naturalistico.
Di seguito vi proponiamo la trascrizione completa del secondo episodio di “Benzina sul fuoco“, dal titolo “Sapevano tutto, ma non hanno fatto niente“.
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SABINA ZAMBON
Se usate i social network, forse vi sarete imbattuti di recente in un paio di hashtag molto diffusi: #Exxonknew e #shellknew. Cioè: “Exxon e Shell sapevano”. Da anni, due delle più grandi compagnie petrolifere sapevano che i loro prodotti avrebbero provocato danni, nel lungo termine, al sistema climatico.
MARCO GRASSO
Il CEO di Exxon, Darren Woods, è stato addirittura accusato di avere mentito al Congresso degli Stati Uniti, il 28 ottobre 2021, durante un’audizione sulla campagna negazionista perpetrata dall’industria petrolifera, per aver negato che la compagnia avesse coperto la propria ricerca sul contributo del petrolio alla crisi climatica. Cosa che, come diremo più avanti, è tristemente vera.
[VIDEO WOODS]
SABINA ZAMBON
Marco, inizierei questo secondo episodio da due domande: da quanto tempo le aziende petrolifere sanno che le loro attività contribuiscono a danneggiare il clima? E che cosa hanno fatto veramente per cambiare le cose?
MARCO GRASSO
Be’, Sabina, queste sono questioni cruciali, e sono anche molto attuali. Per risponderti ho bisogno di partire dai dati scientifici e dal lavoro di una scienziata, Kathy Mulvey. Anzi una “concerned scientist”, una scienziata preoccupata.
A Glasgow, intanto, dove si è svolta la tanto attesa COP 26, qualche spiraglio di luce è riuscito a farsi strada fra i discorsi alati dei politici e le proteste vigorose del Popolo del clima. Intanto, per dire, una coalizione di 85 Paesi, guidati dagli Stati Uniti, si impegna a tagliare di almeno il 30% entro il 2030 le emissioni di metano – e il metano, come sappiamo, è un gas serra molto molto pericoloso, nonostante tutta la retorica sul gas buono che ci deve accompagnare durante la transizione energetica. Poi, la Dichiarazione di Glasgow sulle foreste – un impegno a porre fine alla deforestazione entro il 2030 con uno stanziamento da 19,2 miliardi di dollari – sottoscritto da Paesi che ospitano l’85% delle foreste del mondo, fra i quali Russia, Cina, Indonesia, Colombia, Congo e Brasile. E anche la Glasgow Financial Alliance for Net Zero – una coalizione di banche e fondi – che raccoglie oltre 450 soggetti che rappresentano 130 fantastiliardi di dollari (ah no, scusate i fantastiliardi sono quelli di Zio Paperone, forse hanno detto 130.000 miliardi di dollari, il 40% dei capitali finanziari mondiali) che si impegnano ad azzerare le emissioni nette degli asset gestiti entro il 2050.
Promesse, per ora, come quelle baldanzosamente fatte in altre COP e quasi sempre disattese successivamente. Speriamo che questa volta, però, le cose vadano diversamente e che le promesse di Glasgow abbiano un seguito.
[SIGLA INTRO]
MARCO GRASSO
Il rapporto tra industria petrolifera e cambiamenti climatici è tuttora ambiguo e controverso. Basta analizzare la posizione di alcune fra le più importanti majors. Prendete per esempio BP, Chevron, ConocoPhillips, o le stesse ExxonMobil e Shell di cui parlavamo poco fa. Nel 2016, Kathy Mulvey e alcuni suoi colleghi del Climate and Energy Program alla Union of Concerned Scientists hanno pubblicato un rapporto che analizza la questione sulla base delle comunicazioni e delle iniziative intraprese da queste compagnie tra gennaio 2015 e maggio 2016. Benché tutte le compagnie petrolifere analizzate riconoscessero la scienza del clima e stessero pianificando un modello di business a minore intensità fossile, lo studio dice che allo stesso tempo continuavano a far parte di associazioni o gruppi che diffondono la disinformazione sulla scienza del clima e quindi cercano di bloccare o di rallentare qualsiasi cambiamento.
SABINA ZAMBON
Puoi fare qualche esempio concreto?
MARCO GRASSO
Certo! Shell ha impiegato più di 16 anni per mettere in guardia i propri azionisti sul grave rischio finanziario che i cambiamenti climatici rappresentano per l’azienda. E questo nonostante i suoi vertici fossero a conoscenza da decenni del rapporto di causalità tra i suoi prodotti e i cambiamenti climatici.
Un altro esempio è quello di BP, che da un lato si professa paladina della carbon tax, cioè di una tassa da applicare ai prodotti energetici, o in generale a quei servizi che generano emissioni serra. Eppure, nel solo 2018 ha speso 13 milioni di dollari in attività di lobbying per affossare l’introduzione di quella stessa tassa nello Stato di Washington.
SABINA ZAMBON
13 milioni di dollari!
MARCO GRASSO
Sì, 13 milioni di dollari. Tutto questo ci dice che alcuni fra i maggiori protagonisti dell’industria petrolifera hanno adottato un atteggiamento ambivalente nei confronti dei cambiamenti climatici. Per un verso, i loro centri di ricerca hanno condotto rigorose analisi scientifiche del problema, riconoscendo in modo incontrovertibile che i cambiamenti climatici stavano avvenendo e che avrebbero avuto impatti seri per l’umanità e il pianeta. Per altro verso, le stesse compagnie hanno continuato a finanziare studi esterni con l’obiettivo di insinuare il dubbio sui danni causati dai cambiamenti climatici. Danni che i loro scienziati interni avevano previsto.
SABINA ZAMBON
Avevi detto che la questione è ancora molto attuale, e in effetti hai spiegato in che modo le compagnie petrolifere – di sicuro fino a pochi anni fa – hanno cercato di instillare il dubbio sui danni creati da loro stesse. Adesso però è arrivato il momento di rispondere alla prima delle due domande che ti ho fatto all’inizio: da quanto tempo le aziende petrolifere sanno che le loro attività contribuiscono a danneggiare il clima?
MARCO GRASSO
C’è un momento che viene universalmente considerato come l’inizio della consapevolezza dei cambiamenti climatici e della loro origine antropica ed è la pubblicazione del primo rapporto di valutazione dell’IPCC nel 1990.
L’IPCC è il Gruppo Intergovernativo sui Cambiamenti Climatici. È stato fondato dall’Organizzazione meteorologica mondiale e dal Programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente, con lo scopo di studiare il riscaldamento globale. Nel 1990, quindi, l’IPCC mette nero su bianco che le attività umane hanno contribuito ad aumentare in modo rilevante la concentrazione dei gas serra nell’atmosfera. Quindi, possiamo dire che da quel momento l’ignoranza sul tema delle emissioni serra e delle loro conseguenze è diventata ingiustificabile.
L’aspetto interessante, direi fondamentale per il tema che stiamo affrontando, è che l’industria petrolifera era a conoscenza del rapporto di causalità tra i suoi prodotti e i cambiamenti climatici già da decenni, molto prima del 1990.
STEFANO VERGINE
“È stato lo stesso amministratore delegato della Shell ad ammetterlo candidamente poco tempo fa”.
MARCO GRASSO
Questo è Stefano Vergine, un giornalista d’inchiesta che lavora per Il Fatto Quotidiano. Insieme a lui ho scritto un libro che s’intitola Tutte le colpe dei petrolieri, edito da Piemme.
STEFANO VERGINE
In un’intervista al settimanale americano Time, pubblicata nel gennaio del 2020, l’uomo che ancora oggi guida la Shell, Ben Van Beurden, ha detto qualcosa che in pochi si aspettavano di sentire dalla sua voce. Al giornalista che gli chiedeva se davvero Shell sapesse da anni delle conseguenze sul clima delle proprie attività, Van Beurden ha dichiarato questo, testuale: “Sì, lo sapevamo, tutti lo sapevano e in qualche modo tutti abbiamo fatto finta di niente”. Pronunciate da una persona che lavora per Shell dal 1983, sono parole – direi – molto significative.
SABINA ZAMBON
Questo è sicuro. Però viene da chiedersi: perché Van Beurden le ha volute pronunciare davanti a un cronista, consapevole degli effetti che avrebbero provocato?
STEFANO VERGINE
Be’, dalle ricerche che ho fatto, la ragione sembra abbastanza chiara. Nel 2020, quando Van Beurden ha rilasciato quell’intervista, era già noto da un paio di anni che Shell sapesse. Il merito va sopratutto a una testata online olandese, De Correspondent, che nel 2018 ha pubblicato parecchi documenti interni a Shell, alcuni di questi datati addirittura 1981, quindi quasi dieci anni prima del famoso rapporto dell’Ipcc. Da questi documenti emerge che i vertici di Shell sapevano già quarant’anni fa che le loro attività avrebbero avuto effetti devastanti sul clima, e di conseguenza sulla vita di molti essere umani. Si prevedeva già, ad esempio, che i cambiamenti climatici avrebbero potuto portare a migrazioni forzate su larga scala, fenomeno che stiamo cominciando a vedere adesso. Ma come ha detto Van Beurden, «Shell non è l’unica compagnia petrolifera ad aver taciuto per anni sulle proprie responsabilità».
MARCO GRASSO
Al momento sappiamo con certezza che anche ExxonMobil sa da tantissimi anni dei danni creati dalle sue attività. Pensate che già nel 1957 – quindi quasi 65 anni fa – gli scienziati di Humble Oil, società in seguito assorbita da Standard Oil e poi evolutasi appunto in ExxonMobil, pubblicarono su una rivista scientifica uno studio che riconosceva la scienza dei cambiamenti climatici. Dal 1968 in poi questi avvertimenti sono stati ripetuti dagli Uffici Studi delle maggiori compagnie petrolifere. Quando dico avvertimenti intendo cose come lo scioglimento delle calotte artiche, l’innalzamento del livello dei mari, il riscaldamento e l’acidificazione degli oceani. Eppure, nonostante tutta questa consapevolezza, cos’hanno fatto di concreto le compagnie petrolifere per cambiare? Nulla! Perché nei primi Anni 90, quindi agli albori delle politiche climatiche, le grandi compagnie private, per non parlare di quelle pubbliche, si sono rifiutate di modificare il proprio modello di business per mitigare il riscaldamento globale. Anzi, sono arrivate a giudicare le richieste di ridurre le emissioni di gas serra come una sorta di cospirazione, un disegno mirato unicamente a danneggiare il loro business.
SABINA ZAMBON
Anche l’Italia ha la sua major petrolifera – Eni, forse la multinazionale italiana più famosa al mondo. Stefano Vergine, che cosa sappiamo delle sue responsabilità? Possiamo dire che anche Eni, così come Exxon e Shell, sapeva dei danni causati da gas e petrolio?
STEFANO VERGINE
No, non possiamo dirlo, perché non ci sono prove. Però possiamo vedere quello che Eni sta facendo oggi per combattere i cambiamenti climatici, e le scelte sono quantomeno paradossali, dal punto di vista ambientale. Eni ha promesso di arrivare a emissioni nette zero entro il 2050. Emissioni nette zero non vuol dire non emettere più gas serra, ma compensare le emissioni con una serie di misure come la piantumazione di alberi, lo stoccaggio della Co2 e l’installazione di impianti rinnovabili. Quello che però colpisce di più è un’altra cosa. Innanzitutto Eni ha detto che continuerà ad aumentare l’estrazione di petrolio e metano fino al 2025. Da quel momento in poi diminuirà l’estrazione di petrolio, ma non quella di metano, e questo è l’aspetto più criticato: il metano è infatti un gas serra molto più potente della Co2, il che significa che fa aumentare la temperatura più del petrolio, eppure Eni ha deciso di puntarci forte.
MARCO GRASSO
Ecco, questo discorso su Eni mi dà lo spunto per parlare di quelle che io chiamo l’ABC dei petrolieri, cioè i fatti moralmente rilevanti che definiscono la specifica responsabilità dell’industria petrolifera.
La “A” sta per awareness che in italiano sta per conoscenza. Le compagnie petrolifere erano consapevoli delle minacce dei cambiamenti climatici, ma non hanno condiviso le proprie conoscenze con gli azionisti, con le parti interessate e con il pubblico in generale. Abbiamo già detto di ExxonMobil e Shell, il cui negazionismo è provato da parecchi documenti, ma è possibile che i loro concorrenti, cioè tutte le altri grandi compagnie, fossero all’oscuro delle conseguenze sul clima della propria attività?
SABINA ZAMBON
È il 1959. Il consorzio americano dei produttori di petrolio, l’American Petroleum Institute, organizza un convegno per il centenario dell’industria. Viene chiamato a parlare il fisico Edward Teller, uno dei padri della bomba atomica; tiene un discorso premonitore. Teller mette in guardia sulla correlazione tra combustibili fossili, anidrìde carbonica e riscaldamento globale.
SPEAKER TELLER
Signore e signori, inizierò dicendovi perché credo che le risorse energetiche del passato debbano essere integrate. Prima di tutto, perché si esauriranno, visto che utilizzeremo sempre più combustibili fossili. E poi per la contaminazione dell’atmosfera. Ogni volta che si brucia carburante convenzionale, si crea anidride carbonica, e l’anidride carbonica ha una strana proprietà: trasmette la luce visibile, ma assorbe la radiazione infrarossa emessa dalla Terra. La sua presenza nell’atmosfera provoca un effetto serra. È stato calcolato che un aumento della temperatura corrispondente a un aumento del 10% di anidride carbonica sarà sufficiente per sciogliere la calotta glaciale e sommergere New York. Tutte le città costiere verrebbero sommerse, e poiché una percentuale considerevole della razza umana vive nelle regioni costiere, penso che questa contaminazione chimica sia più grave di quanto la maggior parte delle persone tenda a credere.
SABINA ZAMBON
Era il novembre del 1959, cioè 62 anni fa!
MARCO GRASSO
Quello che avete appena ascoltato è solo uno degli indizi che mi portano a credere come, in realtà, la grande maggioranza delle compagnie petrolifere fossero consapevoli di quello che oggi è sotto gli occhi di tutti. Di sicuro dal 1990, quando fu reso noto il primo rapporto dell’IPCC. Eppure, prima che qualcuna di loro cominciasse a riconoscere la propria responsabilità, ci sono voluti almeno altri dieci anni.
SABINA ZAMBON
Okay, passiamo adesso alla “B”, che in inglese sta per behaviour, cioè il modo di agire. Ci racconti di più?
MARCO GRASSO
È una questione piuttosto evidente, questa, a dire il vero. Oggi l’intera industria petrolifera ha riconosciuto ufficialmente i cambiamenti climatici e la loro origine antropica, e molte compagnie hanno cominciato a puntare a un futuro a basse emissioni serra. Eppure il problema rimane, le compagnie del settore vanno avanti con il consueto modo di agire: esplorano, producono, raffinano e distribuiscono combustibili fossili. Anche in questo caso, i dati dicono più di mille parole.
SABINA ZAMBON
L’Agenzia Internazionale dell’Energia ha calcolato che nel 2019 le spese in conto capitale alla voce combustibili fossili sono state il 99,2% di quelle totali, mentre solo lo 0,8% è andato alle energie rinnovabili e alle tecnologie a emissioni negative. Si dirà: era il 2019, acqua passata. Ma non è così. Le principali cinquanta compagnie hanno pianificato di aumentare la produzione petrolifera di oltre il 35% nel periodo 2018-2030.
MARCO GRASSO
Queste cifre sono indiscutibili. E sono anche moralmente rilevanti, perché l’industria petrolifera non ha cambiato il suo modello di business, e non sembra avere alcuna intenzione di farlo.
SABINA ZAMBON
Siamo arrivati così alla C di “capacity”: ovviamente “capacità”.
MARCO GRASSO
Sì, perché le maggiori compagnie del settore avevano tutte le carte in regola per ridurre la nocività dei propri prodotti. Avevano le tecnologie, eppure non le hanno sfruttate.
SABINA ZAMBON
A partire dagli Anni 50, le maggiori compagnie petrolifere hanno ricercato e brevettato tecnologie per la rimozione dell’anidride carbonica dai rifiuti, per veicoli a basse emissioni, per pile a combustibile, e per pannelli solari. Sia Exxon che Shell detenevano, ad esempio, diversi brevetti per queste applicazioni. Le crisi petrolifere dei primi anni Settanta, poi, hanno contribuito a stimolare la ricerca nel campo delle tecnologie solari: negli Stati Uniti, il Solar Energy Research Development and Demonstration Act del 1974 ha distribuito 6 miliardi di dollari in sussìdi federali per la ricerca in questo settore; gran parte di questo denaro è finito proprio ai petrolieri. Con quale risultato? Beh, è facile immaginarlo: alla fine degli Anni 80 le aziende petrolifere possedevano o controllavano la maggior parte della produzione di pannelli solari negli Stati Uniti, e sono rimaste leader in questa tecnologia fino agli Anni 2000.
MARCO GRASSO
È impossibile dire con precisione in quale situazione ci troveremmo oggi se l’industria petrolifera avesse sviluppato pienamente le tecnologie più pulite di cui disponeva. Ciò che è ragionevolmente certo è che già diversi decenni fa le principali compagnie avevano la capacità, e l’opportunità, di decarbonizzare la propria attività, di influenzare in modo marcato il comportamento dell’intera industria, e di aprire la strada a una transizione verso sistemi socio-economici più puliti. Eppure, non hanno intrapreso alcuna azione significativa. Se non lo hanno fatto, la responsabilità è certamente loro, ma non solo loro. Avrebbero potuto essere costrette a cambiare modello di business dalla politica, ma come abbiamo detto anche nel primo episodio, companie petrolifere e governi hanno costituito un blocco di potere granitico, quasi inscindibile. E di questo blocco di potere hanno spesso fatto parte anche i media, o almeno una buona parte.
SERENA TARABINI
Innanzitutto bisognerebbe fare una distinzione fra mezzi di informazione e mezzi di informazione, perché è sempre esistita una parte dei media che ha mantenuto un costante rumore. Che però non veniva ascoltato, perché sovrastato dal rumore dei mezzi di informazione più potenti e da strategie di comunicazione più pervasive.
Lei è Serena Tarabini, una giornalista del Manifesto che si occupa di tematiche ambientali.
SERENA TARABINI
Sicuramente la collusione dei media ha contribuito a contrastare l’azione sul clima, perché i media hanno partecipato alla messa in discussione dell’esistenza di un problema. Pensiamo allo spazio che è stato dato al negazionismo climatico o l’enfasi posta sul cosiddetto Climagate, la presunta manipolazione di dati da parte di alcuni scienziati dell’IPCC per avvalorare tesi catastrofiste. E a questo caso è stato data un’attenzione, una risonanza enorme. Enorme è il potere che ha l’informazione: non per nulla, Orson Wells l’ha definita il “quarto potere”. I mezzi di informazione sono fondamentali nel costruire una narrazione che si avvale, per essere incisiva, di strategie che agiscono poi sull’immaginario del pubblico. Fra le conseguenze di questa narrazione, è per esempio la “naturalizzazione” di alcuni assunti, cioè la trasformazione in fatti di teorie o opinioni, la trasformazione in imperativo assoluto di quello che è invece una posizione parziale. Una di queste naturalizzazioni è l’imprescindibilità dell’utilizzo dei combustibili fossili per il mantenimento della società, oppure – i due argomenti sono collegati – il far costantemente coincidere un modello economico con un modello di sviluppo. Ovvero esistono più modelli economici, ma in quest’epoca – l’epoca contemporanea – noi abbiamo interiorizzato il modello economico capitalista, che è basato sui combustibili fossili, come l’unico modello di sviluppo possibile.
SABINA ZAMBON
Non ci credereste mai, ma l’industria petrolifera e quella cinematografica americana hanno perso i denti da latte insieme. E i più grandi nomi di Hollywood sono stati tra i primi nella corsa a investire i propri guadagni stellari nell’oro nero. Per capire come sia successo, occorre andare dietro le quinte. Non dei set cinematografici, ma del Fisco. Dal dopoguerra fino al 1963, negli Stati Uniti l’aliquota fiscale più elevata per le persone fisiche era del 91 o 92% per i redditi superiori ai 200.000 dollari. A quei tempi, i redditi più alti non erano quelli dei manager dell’industria o delle stelle dello sport, ma gli ingaggi di chi regalava sogni e illusioni dal grande schermo. Nel 1958, per esempio, l’amministratore delegato della US Steel, il più importante produttore di acciaio, aveva uno stipendio annuo di 300.000 dollari, mentre Frank Sinatra dichiarava la bellezza di 4 milioni di dollari. Sinatra avrebbe quindi dovuto pagare allo Stato circa 3,2 milioni di dollari di tasse, ma approfittò di una scappatoia legale: la “oil depletion allowance”, introdotta nel 1926 e traducibile più o meno come “indennità per l’esaurimento del petrolio”. In pratica, chi investiva nel petrolio poteva godere di grossi sconti fiscali. Fu così che iniziò la luna di miele tra Big Oil e Hollywood: i pezzi grossi del cinema cominciarono a indirizzare le proprie fortune verso l’oro nero. Sinatra, Bing Crosby, Kirk Douglas, Robert Mitchum e perfino Groucho Marx furono tra i tanti che si arricchirono così.
MARCO GRASSO
Il petrolio e l’industria cinematografica non sono così antitetici come possono sembrare al giorno d’oggi, un periodo nel quale le star e i loro film fanno a gara per denunciare i mali della grande industria. Però sia il cinema che il petrolio fanno appello a coloro che sono disposti a scommettere, in entrambi gli ambiti si può fare fortuna o si può fallire spettacolarmente. E, dopo tutto, Hollywood stava rischiando solo quel 9% dei suoi guadagni che non sarebbero finiti nelle tasche del Fisco.
SABINA ZAMBON
Nel 1959, il leader del Sindacato degli Attori Hollywoodiani sollevò davanti al Congresso una richiesta: voleva applicare la depletion allowance agli attori, visto che anche il loro “valore finanziario” era soggetto a brusche picchiate. Fu offerta un’alternativa, e lui rispose: “Prendiamo tutto quello che possiamo ottenere. Abbiamo una vita breve, così come un giacimento di petrolio, ma siamo due volte più belli”. Forse il suo nome vi suonerà familiare: si chiamava Ronald Reagan. E non è un caso che 21 anni dopo, Hollywood abbia sostenuto quel suo ex sindacalista quando si candidò con i Repubblicani per diventare Presidente degli Stati Uniti: grazie a lui sarebbe stato garantito il mantenimento dell’indennità per l’industria petrolifera, e di conseguenza tutti i risparmi delle stelle più celebri.
MARCO GRASSO
E non c’è dubbio che il petrolio possa fornire una base per inscenare il dramma sul grande schermo. In fondo, non ci sono molte altre industrie che possano trasformare uno straccione in un miliardario da un giorno all’altro, e viceversa. E, ovviamente, ritrarre il petrolio in tutti i suoi infiniti usi aiuta a “naturalizzarlo”. Nel senso che le compagnie petrolifere ci hanno indotto a credere che le azioni che producono le emissioni, cioè tutte quelle azioni che comportano la combustione del petrolio, sono normali, necessarie, inevitabili: accendere la luce, per esempio, usare un computer, viaggiare in auto… L’uso naturalizzato del petrolio e l’accettazione passiva delle sue ripercussioni ricordano per molti versi il modo in cui veniva considerata la schiavitù, prima della sua abolizione.
SABINA ZAMBON
Nel senso che una volta il lavoro degli schiavi era ritenuto l’elemento fondamentale dei sistemi economici, così come il petrolio oggi?
MARCO GRASSO
Esatto. Nonostante l’orrore umano e morale della schiavitù, si sosteneva che senza quel lavoro non retribuito, l’economia, e più in generale la società, sarebbero crollate. Esattamente gli stessi argomenti retorici vengono usati ancora adesso dai difensori dei combustibili fossili. Loro sostengono che, per quanto gas e petrolio siano dannosi per l’ambiente, non possiamo permetterci di abbandonarli. Ed è proprio grazie a questi ragionamenti che trova forza il concetto di naturalizzazione del petrolio di cui parlavo prima. Come la schiavitù, il cosiddetto oro nero ci viene ossessivamente proposto come il caposaldo della tenuta dello status quo, del nostro stile di vita, del nostro benessere: senza il petrolio, tutto crollerebbe! Questo processo di naturalizzazione ha dato origine a tre argomentazioni, utilizzate spesso dai sostenitori dei combustibili fossili. La prima è che “è colpa dei consumatori”, cioè di tutti noi, perché attraverso le scelte che facciamo determiniamo la domanda di petrolio.
SABINA ZAMBON
Ma questa sarebbe una sorta di “trappola del sacrificio personale”, no?
MARCO GRASSO
Giusto. È una distorsione, che ignora un fatto evidente: le scelte di consumo sono vincolate da un complesso contesto socio-politico e normativo, oltre che da potenti interessi economici che continuano a promuovere l’uso dei combustibili fossili.
Per dirla in parole povere, non tutti possono permettersi di fare gli ambientalisti, di comprarsi un’auto elettrica, di installare pannelli fotovoltaici sopra il tetto di casa, perché questi beni oggi, purtroppo, non sono ancora alla portata di tutti. Questa retorica individualistica è in larga misura una conseguenza di decenni di propaganda dell’industria petrolifera. Attraverso questa narrazione ingannevole, le grandi compagnie hanno fatto dei cambiamenti climatici una questione individuale, mentre invece la faccenda è strutturale, in gran parte causata proprio dall’industria petrolifera, dalla sua incessante attività di disinformazione e di lobbying. È così che i petrolieri sono riusciti a presentarsi al mondo come meri fornitori di un prodotto che serve a soddisfare una domanda pre-esistente.
SABINA ZAMBON
In effetti, le oil majors hanno tirato un bel colpo mancino: hanno rovesciato l’onere morale su di noi. Mi viene in mente quando BP si è inventata il personal carbon calculator, un calcolatore che permetteva al singolo consumatore di quantificare le proprie emissioni di CO2. Ricordo cene tra amici in cui c’era un piacere quasi sadico ad autoflagellarsi sul perché si vada al supermercato con il SUV per comprare combustibile per la stufa da esterno, così il gatto non avrà freddo in giardino. È strano, no?, che il calcolatore sia stato creato proprio dalla BP: è un po’ come se i produttori di Kalashnikov facessero campagne di sensibilizzazione sul danno che possono recare i proiettili.
Di nuovo Serena Tarabini.
SERENA TARABINI
Nel 2015 ci fu una pubblicazione investigativa da parte di Inside Climate News, un gruppo di giornalisti scientifici che ha messo nero su bianco con questa inchiesta le responsabilità di Exxon rispetto alla manipolazione dell’informazione, anche scientifica, sulla responsabilità delle compagnie petrolifere delle emissioni. Inchiesta che ha vinto premi giornalistici, ma non ha bucato i mezzi di informazione più conosciuti. Adesso, insomma, questo non avviene più perché è cambiato il paradigma: non c’è più uno studioso del clima serio che sostenga che l’aumento delle temperature non sia correlato alle emissioni di anidride carbonica dall’inizio dell’era industriale, e quindi a questo i mezzi di informazione si sono accodati.
MARCO GRASSO
La seconda argomentazione usata dai sostenitori dei combustibili fossili è: “Noi abbiamo rispettato la legge”. Cioè sostengono che le compagnie petrolifere non hanno alcuna responsabilità per le emissioni generate, perché le norme esistenti lo hanno permesso. Sembra semplicistico, e per molti versi strumentale, escludere le imprese da ogni responsabilità sulla base di questa giustificazione. Lo dico perché queste com,pagnie, per esempio, hanno una competenza molto maggiore sulle dinamiche dei cambiamenti climatici rispetto ad altri gruppi e istituzioni, quindi, al contrario, dovrebbero avere una maggiore responsabilità. Inoltre, come vedremo nei prossimi episodi, alcune di loro hanno finanziato e organizzato il negazionismo climatico. Insomma, l’industria petrolifera ha un obbligo di tutela dell’ambiente e della salute umana più forte di quello stabilito dalle leggi. È moralmente responsabile e ha pertanto il dovere di pagare per i danni causati finora e poi deve modificare il proprio modello industriale per evitare di causare ulteriori danni nel futuro.
SABINA ZAMBON
L’altro argomento che sento spesso citare a favore delle compagnie petrolifere è che tutti noi abbiamo beneficiato del boom dei combustibili fossili. Non è vero neanche questo?
MARCO GRASSO
È vero che il petrolio ha comportato grandi benefici per le nostre società e ha migliorato la qualità della vita di tutti, ma non per questo è necessario continuare a tollerare i danni associati al suo uso. Chi sostiene questa tesi dice che i benefici derivanti dall’uso del petrolio superano i relativi costi, ma ci sono diverse ragioni per cui questo approccio, secondo me, è sbagliato. Innanzitutto l’obbligo morale universale di “non arrecare danni” ha la precedenza su qualsiasi considerazione di costi-benefici, e quindi il danno effettivo che viene fatto prevale su qualsiasi beneficio per la società. In secondo luogo, i benefici generati dai combustibili fossili, quelli di cui abbiamo goduto, non derivano da una volontà specifica dell’industria petrolifera: le compagnie petrolifere, infatti, hanno avuto sempre l’obiettivo pressoché esclusivo di trarre il massimo profitto possibile.
SABINA ZAMBON
Ma poi, considerando i danni anche economici causati dai cambiamenti climatici, è proprio vero che i benefici sono superiori ai costi?
MARCO GRASSO
Questo è un punto importante, in effetti. La prospettiva costi-benefici è fuorviante anche per una ragione puramente economica. Il prevalere dei benefici sui costi avrebbe senso a breve-medio termine. Invece, come suggerisce la tua domanda, un approccio costi-benefici a lungo termine deve tenere conto dei costi, infinitamente più elevati, di una catastrofe climatica e del relativo collasso economico. Insomma, se è vero che la nostra società si è sviluppata grazie ai combustibili fossili, se è vero che petrolio e gas ci hanno fatto diventare più ricchi, è anche vero che oggi sappiamo con certezza che questi prodotti stanno distruggendo il pianeta che ci ospita. Per questo, è arrivato il momento di dire “basta”, soprattutto visto che c’è ancora qualcuno che continua a negare l’evidenza. Ma di questo parliamo nel prossimo episodio.