2. Vivere a Pompei: dall’arte allo street food
La trascrizione integrale dell’episodio 2 di Pompei. La città viva. / The complete transcription of Pompei. La città viva, episode 2 (in Italian).
Il 24 ottobre dell’anno 79 termina la prima vita di Pompei: Ed è una morte improvvisa e violenta. Così improvvisa che la città non se ne accorge fino al momento fatidico.
Sì, ci sono stati dei segnali, ma non sufficienti a spaventare chi, come gli abitanti di quel territorio, ignora di vivere sotto un vulcano. Da giorni c’è penuria di acqua, ma non è la prima volta. Si sono avvertite scosse telluriche, ma non tali da destare preoccupazione. Fra i pompeiani c’è chi ricorda bene il devastante terremoto di diciassette anni prima i cui effetti sono ancora visibili: le facciate di molte case sono in restauro, il Tempio di Giove è rimasto senza copertura e il colonnato della basilica è a terra. Pompei, però, nel frattempo è rinata, e ora è più viva che mai.
Per un attimo, quel mattino del 24 ottobre, il mercante di vini che esce di buon’ora dalla sua domus si stupisce dello strano silenzio che lo circonda, senza il consueto cinguettìo degli uccelli. «Ma è solo un’impressione», pensa.
[SIGLA INTRO] Questo è “Pompei. La città viva”. La fine, la scoperta, la rinascita. Il racconto di uno dei luoghi più affascinanti al mondo. Un podcast del Parco Archeologico di Pompei, prodotto da Piano P in collaborazione con Electa. Io sono Carlo Annese.
Secondo episodio. Vivere a Pompei: dall’arte allo street food
L’ultimo giorno di Pompei è un giorno qualunque: la città è in movimento, la vita fluisce ininterrotta e caotica, lungo le strade.
[RESCIGNO] La città sembra muta oggi. Ma la città era molto chiassosa… le tante voci che dovevano popolare piazze, vicoli, santuari. C’erano anche dei problemi di traffico, di congestione, anche di inquinamento.
Questo è Carlo Rescigno. Insegna Archeologia Classica all’Università della Campania “Luigi Vanvitelli”.
Ma cosa succede in quelle strade? Per capirlo seguiamo idealmente il nostro mercante di vini e affidiamoci alla descrizione di chi ha studiato a lungo i resti di Pompei.
[SPEAKER MARY BEARD] «Possiamo compiere un primo passo di avvicinamento alla vita della città grazie alla straordinaria serie di pitture trovate nei Praedia di Iulia Felix, Giulia Felice».
Questo è il racconto di Mary Beard, tra i maggiori esperti di antichità romana, che come pochi altri ha saputo farci vedere, nei suoi libri, la quotidianità di Pompei.
[SPEAKER MARY BEARD] «Quei dipinti non sono rigorosamente realistici: l’intensa attività e l’andirivieni da una parte e dall’altra vanno molto oltre quello che ci si sarebbe potuto aspettare anche nei giorni di mercato più affollato. Non si tratta della vita quotidiana, ma della sua fantasiosa ricostruzione. È piuttosto l’immagine di una strada pompeiana vista con gli occhi di un pittore pompeiano: mendicanti, venditori ambulanti, scolaretti, tavole calde, donne che fanno la spesa».
Quel fregio è conservato in parte nel Museo Archeologico Nazionale di Napoli e in parte, per piccoli frammenti, si può ammirare dov’è stato trovato, cioè nell’atrio della Villa di Giulia Felice. Rappresenta, come tanti flash, quello che sarebbe potuto accadere durante le Nundinae.
[RESCIGNO] Le Nundinae erano i mercati temporanei, che avvenivano settimanalmente e che avevano un ruolo molto importante nell’economia delle città dell’Italia romana.
Questo è di nuovo Carlo Rescigno.
[RESCIGNO] È allora in questo in questo dipinto, alto circa un metro, che si snoda il racconto delle attività commerciali, la compravendita… Erano gli ambulanti, oppure mercanti che avevano organizzato la loro possibilità di vendere tramite bancarelle temporanee, composte proprio in occasione delle feste delle Nundinae. E così avremmo potuto trovare un cuoco che cercava di trovare ingaggi, come i nostri cuochi importanti di oggi, o anche – in aggiunta rispetto al Macellum – dei luoghi dov’era possibile comprare, provare scarpe, misurarle e poi magari ordinarle e andarle a ritirare in un secondo momento. O ancora, qualcosa di molto lontano dalla nostra concezione di società, la vendita degli schiavi, che erano parte delle mercanzie che potevano essere vendute all’interno del Foro.
Il nostro mercante si muove, quindi, dall’attuale Regio V. È un campaniensis, dal nome della porta Campana, a Nord dell’attuale Parco Archeologico, ora Porta Vesuvio. Scende appunto per quella che ora è Via del Vesuvio, per svoltare a sinistra nel Decumano, la via principale, oggi Via dell’Abbondanza. Per lui, come per la gran parte dei pompeiani, è d’obbligo una visita al Foro, il cuore pulsante della città fin dalla fondazione, sotto gli Etruschi e poi sotto gli Oschi.
[RESCIGNO] Il Foro di Pompei occupa una posizione che non è proprio centrale rispetto alla topografia della città, ma è sicuramente in un posto eminente: in prossimità dell’accesso più vicino al porto, e in una zona che comunque è sopraelevata rispetto alla restante parte della città. Da una parte, ciò che restava della vecchia anima commerciale, chiusa all’interno del macello; dall’altra, lo spazio sacro che ruotava intorno al santuario di Apollo e poi di Giove; e poi ancora tutta la vita amministrativa, con gli uffici per i principali magistrati, e poi, in seguito, tutti gli edifici destinati al culto degli imperatori, quando la città diventa una parte integrata dell’Italia romana.
Il mercante solleva lo sguardo verso la montagna, che domina uliveti e vigneti. Il vulcano che decreterà la fine di Pompei, infatti, con le piccole eruzioni che contengono elementi minerali, è anche il motivo dell’eccezionale fertilità dei terreni circostanti e della fortunata attività del nostro uomo, il commercio dei vini locali, di cui Plinio il Vecchio – un personaggio che ritroveremo più volte in questo podcast – parla nella Naturalis Historia.
[SPEAKER PLINIO IL VECCHIO] «Il suo vino, chiuso in anfore, nella zona di Sorrento, fino al Vesuvio, è tutto robustissimo. Là, infatti, domina la Murgantina, proveniente dalla Sicilia, chiamata da alcuni Pompeiana, feconda soprattutto in territori pingui, così come l’Olconia che lo è solo in Campania. I vini di Pompei, dunque, raggiungono il massimo della qualità nel giro di dieci anni, né li migliora un ulteriore invecchiamento. Se ne constata, inoltre, la nocività, perché provocano mal di testa che durano fino al mezzogiorno dell’indomani».
Quei vini, bianchi e rossi, vengono serviti nelle taverne e nei termopolia, le tavole calde che si trovano lungo le strade, come quella riaffiorata in ottimo stato di conservazione nella Regio V tra il 2019 e la fine del 2020, con resti di cibo, ossa di animali e coloratissimi affreschi di ninfe e nature morte. Ma sono prodotti in tali quantità da essere anche esportati in tutto il Mediterraneo, dentro anfore – oggi impilate nel Parco Archeologico – con un fondo appuntito che consentiva di incastrastrarle nelle navi a file alternate.
[MONTANARI] La fertilità di Pompei e del suo territorio era basata sull’agricoltura. Il grande mito della cultura mediterranea – siamo qui proprio nel cuore della cultura mediterranea.
Questo è Massimo Montanari, il maggiore esperto di Storia dell’alimentazione in Italia, materia che Montanari insegna all’Università di Bologna.
[MONTANARI] Un’agricoltura che dava grano, che dava vino, che dava olio. I tre miti, proprio, della cultura mediterranea, anche perché simbolo della capacità dell’uomo di trasformare, di creare, di inventare cibi, bevande, unguenti, che la natura non prevede: la natura dà il frumento ma non il pane, dà le viti ma non il vino, dà gli ulivi ma non l’olio. Ecco, la capacità di trasformare fu vissuta dagli uomini antichi del Mediterraneo come simbolo della loro stessa identità.
Il nostro racconto, lo avrete capito, parla di Pompei antica per parlare della Pompei di oggi. Parla di una storia interrotta, dormiente, come il vulcano, ma destinata a ricominciare. Com’è accaduto per la viticultura, appunto: grazie agli studi di botanica del Laboratorio di ricerche applicate del Parco Archeologico sono state riportate alla luce le radici di alcune vigne, e da diversi anni si è tornati a produrre (con l’azienda Mastroberardino) un vino chiamato Villa dei Misteri, frutto dell’uvaggio storico di Aglianico, Piedirosso e Sciascinoso. Vogliamo credere che sia lo stesso venduto dal mercante che ci accompagna in questa scoperta della città: un vino forte, denso, che veniva consumato mescolato a essenze o diluito con acqua. Assaggiarlo oggi è un viaggio nel tempo, dentro un bicchiere.
[MONTANARI] Io penso che sia sempre utile capire la passione romana per i vini forti, per i vini densi, che magari si potevano allungare con l’acqua. Questo, per esempio, è un gesto – mescolare il vino all’acqua – che oggi non concepiamo quasi più. Recuperare la cultura antica del vino potrebbe voler dire anche questo, cioè smitizzare un po’ questa idea del vino come opera d’arte intoccabile, e recuperare invece l’idea di un vino che coesiste, coabita, dialoga con l’acqua. Questo dialogo fra passato e presente è sempre molto interessante e sempre molto istruttivo.
Ma torniamo a quell’ottobre fatale del 79. Dal lato del Vesuvio, si sente odore di zolfo, ma non riesce a insinuarsi nelle vie interne, coperto com’è dagli effluvi delle botteghe e delle osterie. E da un altro odore inconfondibile: l’odore del pane, che aleggia intorno al forno di Modesto, il più grande della città.
Modesto non è un panettiere come lo intendiamo oggi, perché nei panifici di Pompei si seguiva l’intera filiera, a partire dalla macinatura del grano. Conosciamo il suo nome e il suo status di liberto, cioè di schiavo liberato, grazie a un’iscrizione elettorale trovata vicino all’entrata della casa che fungeva anche da bottega. Ha appena finito l’ultima infornata della giornata: 81 pagnotte. Esattamente quelle che appariranno agli occhi degli archeologi secoli dopo: carbonizzate, ma miracolosamente intatte.
[MONTANARI] A Pompei abbiamo la fortuna straordinaria di avere di fronte a noi non solo degli splendidi affreschi di cibi, di prodotti, ma abbiamo anche i cibi stessi, i cibi carbonizzati dall’eruzione del Vesuvio: dei pani, dei frutti, delle conchiglie. E abbiamo anche i resti archeologici quasi presenti, quasi vivi, dei luoghi di vendita, dei luoghi di ristoro. Mettendo insieme tutte queste informazioni non è che ricaviamo molto di più di quello che già sapevamo dalle fonti letterarie sul cibo e sull’alimentazione degli antichi romani: molto pane, focacce, cibi cerealicoli. Molti frutti (uva, pere, mele, fichi, pesche). Molto pesce (siamo vicini al mare), un po’ di carne – non carne di animali grossi, ma volatili, polli, galline, conigli. Un po’ di uova. Ecco, tutto quello che fa parte della più tipica alimentazione mediterranea è lì a Pompei: non solo raffigurata, ma presente, palpabile, quasi ancora gustosa.
Dieta mediterranea, dunque, consumata molto spesso fuori di casa, a giudicare dalle numerose taverne e dalle tante osterie che ancora oggi sono tra le attrazioni più visitate nel Parco Archeologico di Pompei. Luoghi in cui si consumavano i pasti in piedi, letteralmente in strada. Oggi lo chiameremmo street food.
[STEFANI] Non possiamo dire che sia nato a Pompei, ma possiamo dire che era sicuramente una moda frequente a Pompei.
Questa è Grete Stefani, funzionario archeologo e memoria storica del Parco.
[STEFANI] Gli abitanti di Pompei o i viaggiatori (perché Pompei era comunque una città commerciale, quindi aveva molti stranieri che passavano per vari motivi nella città), c’era proprio questo uso di mangiare nei termopolia, questa sorta di bar che sono molto frequenti soprattutto nelle strade principali, e dove uno poteva consumare un cibo caldo, bere qualcosa e mangiare contemporaneamente.
A volte, sul retro si trovano spazi più accoglienti, i triclini, dove potersi sdraiare a mangiare con più calma…
[MONTANARI] … qualcosa di simile ai nostri ristoranti. Ma c’è una differenza: in questi luoghi non c’è una cucina. Quindi sembra quasi che fossero destinati a personaggi di una certa levatura che andavano fuori a mangiare ma si portavano il cibo da casa, oppure avevano dei servi che lavoravano per loro. Vicino a questi luoghi ci sono dei fornelli giusto per riscaldare il cibo. Luoghi che hanno socialmente una connotazione diversa, perché il mangiare per la strada era tipico della gente comune mentre sedersi a mangiare, in casa o nei retrobottega di questi luoghi per la strada, era più tipico delle persone di una certa levatura sociale.
Non lontano dalla Casa del Forno di Modesto è stata da poco ritrovata la Caupona del gladiatore, che quel giorno è affollata come al solito. Se i termopolia offrono cibo da mangiare per strada, le cauponae somigliano alle nostre osterie.
[STEFANI] La gran parte di queste cauponae, che stanno nella zona dell’anfiteatro, sono ubicate in giardini-vigneti, in modo che c’era sia la parte produttiva che la parte dove si consumava sia il vino e dove si poteva mangiare.
La Caupona del Gladiatore era riconoscibile, appunto, dalla statua di un lottatore, eretta nel cortile aperto dov’era il triclinio. Di nuovo il professor Carlo Rescigno.
[RESCIGNO] I gladiatori sono una di quelle manifestazioni che permetteva a un cittadino romano in qualsiasi coordinata dell’impero di sentirsi a casa sua. Perché, nonostante tutte le diversità del settore orientale occidentale e meridionale del Mediterraneo, c’era uno zoccolo duro di elementi condivisi, di urbanitas, che facevano sentire gli abitanti delle città del Mediterraneo romano al loro posto dovunque. Uno di questi elementi è proprio la passione per i giochi gladiatori.
E dunque, ecco i nostri gladiatori.
Un mirmillone, col torso nudo e uno scudo rotondo, affronta un trace armato di coltello. Il combattimento è molto duro. Il trace sembra in difficoltà, ferito e ripiegato su se stesso.
Difficilmente queste sfide finivano in parità: più di frequente la vittoria di uno significava la morte dell’altro, o la sua salvezza, se il pubblico e l’arbitro decidevano di graziarlo. Dimenticate però il pollice verso che avrete visto in qualche film: nelle fonti antiche non ce n’è traccia, non è mai esistito. Solo a Hollywood, appunto.
Poi, a fine spettacolo, come ai giorni nostri dopo il calcio, ci si riversava per le strade.
[RESCIGNO] A Pompei, noi abbiamo un anfiteatro tra i più antichi. Si trova nell’angolo sud-orientale della città, si appoggia alle mura e non possiede quella complessità dei sotterranei che caratterizza gli anfiteatri più evoluti, come quello di Capua, il Colosseo o come quello di Pozzuoli. Ed era uno spazio destinato ad accogliere cittadini e coloni provenienti anche da un distretto più ampio che arrivava fino a Nocera. In occasione di questi giochi, che duravano per lungo tempo, potevano partecipare anche persone che venivano dall’esterno della città. E questo è il motivo per il quale l’anfiteatro occupa uno spazio periferico: per non congestionare la vita cittadina nel corso dello svolgimento dei Giochi e per permettere una buona accessibilità anche a chi non viveva all’interno della città.
Le strade, per la verità, non erano sempre inondate dall’odore del pane, anzi. Le vie di Pompei erano spesso maleodoranti, anche a causa delle deiezioni umane. L’urina, per esempio, che veniva raccolta in anfore poste ai bordi delle strade e svuotate dagli schiavi dei Fullones, i lavandai.
[STEFANI] Un modo per raccogliere una sostanza che veniva utilizzata molto per la pulizia dei tessuti, degli abiti. Non è una cosa così tanto strana, perché l’urina contiene ammoniaca, che è una sostanza che comunque viene utilizzata abbastanza normalmente per il lavaggio.
Così accadeva nella Fullonica di Stefano, la lavanderia meglio conservata di Pompei, sul lato Sud di via dell’Abbondanza. Ce n’erano 47 in città: in alcune si lavorava la lana grezza, in altre si provvedeva alla filatura e alla tessitura, in altre ancora alla tintura. Quella di Stefano era molto di più di un nostro negozio con le lavatrici automatiche. Nelle tre grandi vasche che sono state ritrovate in questa casa patrizia avveniva tanto lo sgrassaggio e il trattamento dei tessuti appena filati, prima della vendita, quanto la smacchiatura e il lavaggio degli abiti.
Il nostro mercante di vini è diretto proprio lì, alla Fullonica, ma deve attendere che gli schiavi che accompagnano il duòviro Marco Olconio Prisco ritirino le toghe appena lavate. L’abito fa il monaco anche a Pompei, si direbbe, e una toga candida è un segno distintivo importante.
Provate per un attimo a immaginare: quel 24 ottobre il duòviro, la più alta carica della città, ha allungato il suo percorso abituale. Marco Olconio ha 24 anni ed è di una delle stirpi più ricche e in vista di Pompei. Lungo la strada è passato di fronte al Teatro Grande, ricostruito dopo il terremoto del 62 proprio dalla sua famiglia: un atto di generosità che deve avergli portato parecchi voti. E avrà riletto per l’ennesima volta l’iscrizione che risale appunto alla sua elezione, nella primavera precedente, in cui, evidentemente, aveva guadagnato l’appoggio della “gilda” dei fruttaioli:
[SPEAKER] Tutti i fruttaioli con Elvio Vestale implorano la protezione di Marco Olconio Prisco, duoviro e giudice.
Le epigrafi di Pompei sono una storia nella storia (ne parleremo ancora in questo podcast) e ci consentono di raccontare, insieme a molto altro, il modo in cui le forme delle città riflettano le società degli uomini e delle donne che le abitano.
Oggi siamo abituati a metropoli in cui i quartieri dei ricchi sono ben distanti da quelli popolari; dove chi siede in alto nella scala sociale può trascorrere una vita intera senza quasi incrociare chi occupa le parti più basse. A Pompei, invece, è straordinario vedere come gli estremi si tocchino: ville ricchissime al fianco delle case umili, domus patrizie che confinano con le botteghe degli artigiani.
[PESANDO] Quasi tutte le case nobili presentano sulla fronte, e anche lungo i lati lunghi spesso degli interi isolati che occupavano, la presenza di botteghe, piccoli appartamenti, mezzanini (le pergulae), abitate da persone che erano affittuari del proprietario della domus.
Fabrizio Pesando è esperto di storia dell’architettura privata nell’antica Roma. Insegna Archeologia e Storia delle Antichità Pompeiane all’Università Orientale di Napoli.
[PESANDO 2] Anche qui ci soccorre la testimonianza ciceroniana: erano quello che veniva sentito come i profitti delle Insulae date in affitto, la merces insularum (come la definiva Cicerone), che rappresentava per i nobili una non piccola quantità di danaro e di proventi. La situazione è un po’ come quella del centro storico di Napoli, dove questi grandi palazzi del Sei e del Settecento, magnifici, convivono accanto alle botteghe, ai bassi, alla vita di vicolo che si conduce e si conduceva, almeno fino alla metà del Novecento, in una forma di commistione tra miseria e nobiltà.
A Pompei, quindi, si sviluppa un vero mercato immobiliare. Ed è di nuovo la studiosa inglese Mary Beard a raccontarcene l’esistenza, con tanto di locationis praescriptio. Ovvero, con parole moderne e molte affinità con l’oggi, un annuncio immobiliare.
[SPEAKER MARY BEARD] Affittasi dal 1° luglio. Nell’insula Arriana Polliana, proprietà di Cneus Alleius Nigidius Maius, unità commerciale/residenziale con mezzanini (tabernae cum pergolis suis), appartamenti di qualità al piano superiore (cenacula equestria) e case (domus). Agente: Primis, schiavo di Cneus Alleius Nigidius Maius.
[PESANDO] In questo caso dobbiamo stare attenti ai modernismi. Noi abbiamo delle documentazioni su questo fatto, cioè che esisteva la possibilità di prendere in affitto botteghe, piccoli appartamenti… Per esempio, sulla facciata di una casa – la casa di Panza, una delle più grandi di Pompei – era stata letta nell’Ottocento, al momento della scoperta della casa, una lunga iscrizione in cui si ricordava che il procuràtor – sarebbe il maggiordomo della famiglia di Cneius Alleius Nigidius Maius, un personaggio ricchissimo – aveva messo in affitto parti del suo isolato abitativo, e quindi questo tipo di mercato immobiliare esisteva, gestito all’interno della famiglia, a livello domestico.
Le case, all’esterno come all’interno, parlano. Esprimono lo status della famiglia che le abita, la gloria passata e ancora di più le ambizioni future. L’arte, l’architettura, così come quello che oggi chiameremmo interior design, a Pompei sono una forma di affermazione sociale. Lo sa bene il nostro giovane Marco Olconio Prisco, ricco patrizio. E lo sa il popolo.
Se, con un po’ di enfasi, possiamo definire oggi Pompei una vera e propria “città d’arte” lo si deve in buonissima parte a questo.
[PESANDO] L’architetto è una figura centrale nel mondo antico. Basti pensare, insomma, che se uno si legge le prefazioni dei libri che Vitruvio scrive, De Architectura, l’unico manuale di architettura antico che ci è giunto, per capire quanto anche autostima l’architetto aveva nel proprio lavoro. Si comporta come una vera e propria archistar moderna.
Sono famosi i mosaici della Casa del Fauno, abitata da una famiglia del ceto alto, o gli affreschi della Casa del Criptoportico, raffinati e ricchi di riferimenti letterari alla guerra di Troia: una probabile celebrazione delle origini del proprietario.
[PESANDO] Il proprietario della casa del Fauno ha fatto della decorazione della sua casa una specie di biglietto da visita della sua personalità e anche del fatto di essere un intenditore di arte greca. La Casa del Fauno è la più grande casa di Pompei, che raggiunge quasi 3 mila metri quadri, e tra le più grandi in assoluto nel panorama delle nostre conoscenze sulla casa romana. Com’è noto, è l’edificio privato al mondo in cui si concentra il maggior numero di mosaici, che sono dei mosaici figurati, quindi rappresentano quello che Plinio definiva come “pittura in pietra”. E il famoso mosaico della Battaglia di Alessandro contro Dario rimane ancora oggi un capolavoro assolutamente non ancora raggiunto da questi ritrovamenti successivi che ci sono stati. Quindi il padrone della Casa del Fauno voleva evidentemente stupire i propri ospiti.
Altrettanto famosa è la casa dei Vettii, soprattutto per l’arcinoto Priapo ritratto nel vestibolo. È probabile che si tratti di un’abitazione di “nuovi ricchi”, cioè di liberti che hanno conosciuto una rapida ascesa sociale durante quello che, usando categorie moderne, definiremmo il boom economico delle Età Neroniana e Flavia. «Grazie al commercio», scrive ne Il tempo ritrovato Massimo Osanna, l’artefice del rilancio del Parco Archeologico di Pompei, «l’arricchimento di molti aveva toccato vette impensabili per le generazioni precedenti. Il messaggio veicolato da Priapo diventa dunque esplicito: il dio saluta col suo membro enfaticamente esibito la ricchezza che il commercio ha portato in casa, e con essa lo status del dominus».
Pompei, quindi, come città d’arte domestica, legata alle domus e alle esigenze dei loro proprietari. E questa condizione eserciterà un’enorme influenza sui secoli successivi. Un esempio vale per tutti.
Nel 1911 un promettente architetto ventiquattrenne visita gli scavi come tappa di un tour in Italia. Vi approda dopo aver visitato la Turchia, seguendo la guida turistica più autorevole di inizio Novecento, il Baedeker – Dalle Alpi a Napoli, su cui torneremo in uno dei prossimi episodi.
È una Pompei molto diversa rispetto agli scavi attuali: una città da leggere in filigrana, dove le case hanno perduto i piani alti e molte costruzioni hanno lasciato appena un’impronta sul suolo. Sui suoi quaderni di viaggio, il giovane architetto annota suggestioni e spunti da elaborare in futuro.
In una pagina dedicata alla domus di Marco Lucrezio scrive:
[SPEAKER] Il pompeiano non fora i suoi muri; ha una sacra devozione per i muri. Ha amore per la luce. La luce è intensa, se sta tra i muri che la riflettono. Le misure sono la causa di questa bellezza.
Il giovane architetto disegna una grande quantità di schizzi, alcuni ad acquerello.
[TALAMONA] Li ha fatti anche velocemente. Non gli interessava che fosse un bel disegno, era un disegno di studio. Poi ci sono anche bei disegni. Sono molto interessanti.
Questa è Marida Talamona, docente di Storia dell’Architettura all’Università Roma 3, che a quel viaggiatore ha dedicato profondi studi.
[TALAMONA] Quanto sia interessato alla contemporaneità è anche dalle sue parole, perché lui sta attento a non parlare di colonne, ché colonne gli sembra un termine arcaico: parla di cilindri, che poi saranno i volumi puri delle sue architetture; quando parla dei muri parla dei muri interni che si raccordano con l’esterno a formare dei volumi. Ha già in testa un’idea di un’architettura futura che svilupperà poi coerentemente come pensiero più tardi.
L’architetto si chiama Charles-Édouard Jeanneret, ma il mondo lo conoscerà con lo pseudonimo di Le Corbusier.
[TALAMONA] Il giovane Jeanneret, cioè il futuro Le Corbusier, arriva a Napoli il 6 ottobre del 1911. Veniva da un isolamento totale, da giorni di isolamento, passati soprattutto sull’Acropoli di Atene, e trova una Napoli chiassosa. Di fronte a questo spaesamento della contemporaneità scappa, si rifugia, va un giorno a Pompei, il 9 di ottobre, dalla mattina alla sera. In quel giorno rilieva la casa dei Vettii, gira per il Foro. La sera ritorna a Napoli e prende la decisione di lasciare Napoli e di andare a Pompei.
Si fermerà quattro giorni, molto più del previsto, e negli anni successivi non ci metterà più piede. Ma quella visita lo segnerà per sempre, e quelle rovine saranno all’origine della sua idea di architettura..
[TALAMONA] Le ultime pagine del suo manoscritto sul Voyage d’Orient si chiudono con Pompei. In realtà, lui sottolineava in queste pagine proprio il fatto che la stessa esperienza di isolamento fondamentale che aveva avuto al’Acropoli di Atene, sui gradini del Partenone, l’aveva ritrovata nelle strade di Pompei. E poi termina con la frase: “C’era quel cratere in alto, terribile e minaccioso sulla città”. Quindi un rapporto intensissimo, che segna moltissimo l’idea futura dell’architettura di Le Corbusier.
Nei suoi quaderni riflette sulla luce dentro le domus; sugli oggetti, negli interni privati come negli spazi pubblici; e soprattutto sulla relazione fra architettura e paesaggio.
[TALAMONA] L’esperienza delle abitazioni, delle domus di Pompei formerà fortissimamente Le Corbusier. È interessato ad alcuni temi fondamentali, che sono il rapporto tra l’interno e l’esterno, lo spazio interno che poi si dilata sulle mura, con le pitture, e diventa anche spazio esterno, e poi si espande verso le strade, verso l’esterno. E quindi questo rapporto fortissimo che gli farà pensare, riflettere, a uno dei temi fondamentali del pensiero le corbusieriano: che dall’interno dallo spazio interno si forma l’esterno, si guarda l’esterno.
Quella di Le Corbusier è solo una piccola parte dell’eredità lasciata da Pompei ai posteri. Prima che venisse cancellata dall’eruzione del Vesuvio, era un luogo di sperimentazione: si parla, non a caso, di stili pompeiani per identificare tecniche che parvero fin da subito profondamente innovative.
Non che fossero esclusive della città, sia chiaro: nello stesso periodo, probabilmente, erano in uso in altre città romane. Ma ancora una volta Pompei prevale e lascia il suo segno, perché qui si è visto ciò che altrove si è appena potuto immaginare.
A contribuire alla sua immortalità c’è anche una eredità cromatica: 82,35% di rosso, 12,16% di verde e 10,49% di blu: è la formula magica del rosso pompeiano, codificata dai contemporanei sulla base del pigmento rosso che domina i più begli affreschi ritrovati nelle case della città.
[DI NAPOLI] Il colore è uno degli elementi percettivi più ineffabile che esista. Noi solo per nostra, a volte, pigrizia, a volte comodità, a volte mancanza di precisione ci accontentiamo di alcune etichette, ci accontentiamo di dare un nome che un nome non potrebbe averlo.
Questo è Giuseppe Di Napoli. Insegna all’Istituto Europeo del Design, lo I.E.D., di Milano, ed è autore del saggio Il colore dipinto, edito da Einaudi.
[DI NAPOLI] Indicare con un termine un qualunque colore è una grande approssimazione, in modo particolare per questo tipo di colore, definito appunto “rosso pompeiano”. Passando da una abitazione all’altra si ritrovano tanti tipi di rosso, che è molto difficile ricondurre a un’unica categoria, perché fin dalle origini sono già perlomeno tre i materiali che vengono impiegati negli affreschi pompeiani. Cioè: le terre ocra, rosse – in queste terre, l’ossidazione del ferro produce questa colorazione di rosso –; poi esistono proprio delle miscele di ocre rosse che vengono utilizzate per dare una certa tonalità di rosso (per esempio la sinopia, famosissima, no?); ed esiste quella che viene definita anche l’ocra artificiale oppure l’ocra usta, cioè che si ha per calcinazione del piombo.
Parleremo anche più avanti di come le nuove tecnologie contribuiscano a ridefinire la ricerca archeologica. Ne è un esempio proprio il clamoroso risultato di uno studio dell’Istituto di ottica del Consiglio nazionale delle ricerche di Firenze, secondo cui quello che chiamiamo rosso pompeiano in realtà non era un rosso.
[DI NAPOLI] Quello che noi oggi vediamo è anche la visione di un rosso che in origine non era tale, ma era un’ocra gialla, che poi sotto l’azione delle alte temperature dell’eruzione del Vesuvio, questi gas hanno alterato e quindi l’ocra non era più gialla ma era diventata rossa. Per cui, se proprio qualche senso questo termine può avere, dovrebbe essere una sfumatura di toni di rosso che vanno dall’arancione, dall’aranciato, perfino un giallo molto carico, fino a una tonalità molto scura, che va verso il marrone oppure perfino verso il viola.
Non c’è visitatore, nel passato come oggi, che non rimanga colpito, se non travolto, dall’energia del rosso degli affreschi pompeiani. E la sua fortuna, come ricorda Giuseppe Di Napoli, ha attraversato i secoli:
[DI NAPOLI] Potremmo dire che il rosso pompeiano ha una sorta di eleganza legata a una condizione sociale elevata. Va anche molto ben calibrato, perché potrebbe passare molto facilmente dall’eleganza all’arroganza. Ci sono tanti artisti che hanno utilizzato il rosso, o un certo tipo di rosso, come colore di riferimento, ma il rosso pompeiano non è un colore da pittore. In questo senso ha svolto un ruolo di moda culturale, nella progettazione, nell’architettura e negli abiti, piuttosto che nella pittura.
Da poco il sole ha superato lo zenit. Il duòviro Marco Olconio Prisco e il nostro mercante di vini si trovano ancora nei pressi di via dell’Abbondanza.
C’è qualcosa di strano nell’aria. Entrambi si volgono verso il Vesuvio e vedono una nuvola grigia intorno al monte. Non è raro che se ne formino lassù; questa, però, ha un aspetto particolare.
Appena si mettono in cammino sentono un’esplosione. Una valanga di magma, ceneri e gas ha appena oltrepassato il muro del suono. È l’inizio della catastrofe. In pochi minuti si scatena il caos. Entrambi corrono verso quella che oggi è nota come Porta di Stabia.
Il pericolo è evidente. Eppure non tutti fuggono verso una possibile via d’uscita.
Che cosa passa per la testa di un uomo o di una donna sorpresi da qualcosa di cui non hanno mai fatto esperienza prima? Magari si chiedono se ci sia il tempo per tornare a casa dai propri famigliari? Oppure il tempo per raccogliere qualcosa?
Ecco, anche questo attimo estremo ci offre uno spaccato della vita quotidiana di Pompei. Come abbiamo cercato di raccontare in questo episodio, sono le cose che raccontano la vita, comprese le ultime cose che i pompeiani in fuga hanno portato con sé.
[TONIOLO] Un lavoro molto importante, e parallelo allo studio dei calchi, è stato appunto recuperare i materiali vicini ai calchi o in alcuni casi quelli degli scheletri, e questi oggetti che portano con sé sono le uniche cose che ci permettono un po’ di ricostruire la biografia delle vittime.
Lei è Luana Toniolo, funzionario archeologo del Parco di Pompei, responsabile tra l’altro degli scavi nelle Regiones I e II.
[TONIOLO] Confrontare questi oggetti ci dà proprio anche l’idea un po’ delle speranze di queste persone. Moltissime volte abbiamo trovato le chiavi delle case, perché scappavano, portavano via la chiave, poi magari nella speranza di tornare. Tantissimi, praticamente tutti, come tra l’altro lo scheletro ritrovato negli ultimi scavi della Regio V, avevano un gruzzolo di monete. In alcuni casi forse, come nel fuggiasco recentemente trovato, l’incasso di una giornata. Molto spesso le donne portavano i gioielli e in alcuni casi anche statuette di divinità, dei Lari: si voleva portare anche una specie di portafortuna, di ricordo degli antenati. In alcuni casi, ad esempio nei fuggiaschi di Porta Nola, sono state trovate anche armi, e lucerne in vari casi, perché dobbiamo immaginare che, molto probabilmente, era buio – anche se era giorno, era buio – e quindi per tentare di trovare una via di fuga alcuni si portavano proprio questa lucerna.
In pochi minuti, il mondo attorno ai pompeiani collassa. Crollano le case, sotto il peso delle masse incandescenti espulse dal Vesuvio. E forse per questo diventa impossibile raggiungere la Porta di Stabia.
Non c’è ovviamente verità storica nel nostro racconto – sin dall’inizio vi ho chiesto di fare uno sforzo di immaginazione –, ma a questo punto concedeteci un’ultima versione verosimile della tragica fine dei due uomini che abbiamo seguito fin qui nella mattinata del 24 ottobre. Il mercante di vini e il duòviro Marco Olconio Prisco fuggono verso Porta Nocera, verso la possibile salvezza, attraversando uno dei luoghi più simbolici di Pompei che il turista di oggi può visitare, cioè l’Orto dei Fuggiaschi.
[TONIOLO] L’Orto dei Fuggiaschi è stato scavato l’ultimo anno della Soprintendenza di Maiuri, nel 1961. Siamo a ridosso delle mura urbiche, e ha trovato a più riprese tre gruppi di fuggiaschi. Sono stati trovati lì perché probabilmente speravano di riuscire a scappare da qualche passaggio nelle mura urbiche, anche perché dobbiamo immaginare che è un paesaggio molto diverso da quello che vediamo, un paesaggio quasi lunare, con i sopravvissuti alle prime fasi dell’eruzione che camminavano su almeno tre metri e mezzo di ceneri, di lapilli. Gran parte delle case non erano più visibili, quindi dovevano anche essere spaesati, aver perso un proprio punto di riferimento. Tentavano di fuggire verso la parte Sud della città, però purtroppo si sono trovati il muro di fondo. Tra l’altro, anche in questo caso, Maiuri, con grande sensibilità, sceglie di lasciare una parte proprio dei lapilli su cui queste persone hanno trovato la morte.
Maiuri, a cui fa riferimento Luana Toniolo, è Amedeo Maiuri, uno dei più grandi archeologi italiani. Diresse gli scavi di Pompei dal 1924 al 1961. Raccolse quindi l’eredità di Giuseppe Fiorelli, che cento anni prima aveva realizzato il primo calco umano colmando i vuoti lasciati dalle correnti piroclastiche attorno ai corpi di chi era rimasto bloccato, nelle pose più drammatiche, alla ricerca della salvezza. E proprio i calchi ricavati nell’Orto dei Fuggiaschi, nella prima campagna di scavo del 1961, sono fra i documenti più significativi degli ultimi attimi della città…
[TONIOLO] … non solo perché sono 13 tutti insieme, ma anche per alcune posizioni che sono tipiche: chi sta appoggiato su un gomito tentando di rialzarsi, i bambini riversi o altri che si mascherano appunto la bocca per tentare di non respirare questi gas. Sono calchi con una fattura meno attenta di quelli magari precedenti, ma che però proprio per il fatto di essere tutti insieme, lì dove sono stati scavati – alcuni, certo, vengono da altre parti del giardino, però sempre in quel giardino – danno in maniera molto forte l’idea della tragedia: di queste persone bloccate nella fuga e quindi riverse sullo strato di lapillo.
Fra di loro, forse, c’è un mercante, morto disteso con un gamba piegata. E un duòviro seduto con le ginocchia raccolte. La morte ne ha annullato le distanze sociali. Il destino li ha resi più simili che mai, riportandoli alla loro essenza di uomini. Entrambi tengono un braccio alzato sul volto, nel tentativo estremo di proteggersi e respirare, prima di morire per asfissia.
Nella lotta fra uomo e natura, questa volta ha vinto la natura. Ma di questa guerra, antica quanto è antica l’umanità, di cui a Pompei si è combattuta soltanto una delle tante battaglie, parleremo nel prossimo episodio.
[FINE]