Dopo le elezioni presidenziali più incredibili della storia, il viaggio di Francesco Costa nella America di Donald Trump continua.
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In 17 puntate, nella seconda metà del 2016, Francesco Costa – vice direttore de ilPost.it e uno dei massimi esperti di politica e società americane – ha raccontato gli ultimi mesi della campagna elettorale più lunga e difficile degli ultimi decenni negli Stati Uniti. Dalla convention dei Repubblicani a Cleveland a quella dei Democratici a Philadelphia, fino all’incontro con gli elettori dell’Iowa (uno degli Stati in bilico) a due settimane dal voto, il racconto dal vivo di Costa si è intrecciato con le storie più incredibili e inedite dei candidati delle precedenti elezioni: lo storytelling più puro, divulgativo e interessante che ha raggiunto 3.500 ascolti di media per puntata ed è stato ai lungo nei primi posti della classifica di iTunes.
Cliccando sul visore qui sotto, oppure andando su Apple Podcast, puoi ascoltare tutte le puntate della seconda stagione. Da Costa a Costa è ripartito il 21 gennaio 2017, il giorno successivo l’insediamento del nuovo presidente Donald Trump, e alterna ogni sabato una puntata della newsletter e una puntata del podcast. Un appuntamento fisso, che durerà per tutto il 2017.
Nell’ultima puntata di Da Costa a Costa proviamo a ragionare su quella che nel 2018 sarà probabilmente la più importante storia di politica interna negli Stati Uniti, oltre alle elezioni di metà mandato, e su cosa deve cercare il Partito Democratico se vuole battere Donald Trump alle presidenziali del 2020. Cosa serve più di ogni altra cosa a un candidato che vuole vincere? Esiste davvero il dualismo tra “voto di pancia” e “voto di testa”? Ci danno degli spunti due persone che non potrebbero essere più lontane – Barack Obama e Corey Lewandowski, l’ex capo dello staff di Trump – e che eppure indicano la stessa direzione.
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Il Partito Democratico ha ottenuto una vittoria sorprendente e molto importante in Alabama, per il suo futuro ma anche per il presente immediato. Di norma i Repubblicani in Alabama stravincono anche se candidano «un nome preso a caso dall’elenco del telefono»; stavolta gli è andata male, dopo aver candidato un ex giudice estremista accusato di molestie su minori: assieme a quel seggio hanno perso anche uno dei due voti di maggioranza che gli restavano al Senato, e un altro pezzo della loro autorità morale. È un risultato che rischia di aggravare la guerra civile interna ai Repubblicani, ma soprattutto è solo l’antipasto di quello che succederà nel 2018: quello che sarà – davvero – l’anno decisivo per Donald Trump e la sua amministrazione.
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L’11 dicembre si è tenuto da OTTO, a Milano, il Farewell Party che ha concluso la seconda stagione di Da Costa a Costa. L’evento è stato trasmesso in diretta da Piano P sulla piattaforma di Spreaker e ora è disponibile nel formato abituale.
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Si dice che sarebbe bene i cittadini non sapessero come vengono fatte due cose, visto quanto può essere disgustoso il procedimento: le salsicce, e le leggi. Con la puntata di oggi non parliamo di salsicce, ma ci immergiamo nel complicato processo con cui si fanno le leggi negli Stati Uniti: e cerchiamo di capire una cosa importante che succederà questo mese, così come le sue implicazioni di lungo periodo. Il Congresso deve approvare una legge per finanziare le attività del governo federale. I Repubblicani non hanno abbastanza voti per farlo da soli, quindi devono trovare un accordo con i Democratici. Senza questo accordo, che oggi sembra lontano, il governo federale dovrebbe sospendere da un giorno all’altro le sue attività e i suoi pagamenti: chiuderebbe, di fatto. Ci sono stati altri “government shutdown” in passato negli Stati Uniti, ma questo sarebbe particolarmente grave: anche perché l’approvazione del budget finirà inevitabilmente per intrecciarsi con la riforma fiscale e altre scadenze legislative imminenti. Ai Repubblicani servirebbe che Trump mostrasse le grandi qualità di negoziatore che dice di avere, ma che fin qui non si sono viste.
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Il governo statunitense potrebbe nominare un procuratore speciale per indagare sulla Fondazione Clinton e sul presunto scandalo dell’uranio venduto alla Russia, che è uno scandalo che non ha fondamento. Questa storia – così come quella di Roy Moore, candidato al Senato per i Repubblicani e accusato di molestie su minori – aiuta a capire un aspetto centrale della politica statunitense contemporanea, che spiega quasi tutto il resto: un fenomeno storico che comincia venti anni fa e che ha portato nel tempo a una polarizzazione dell’elettorato senza precedenti.
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Quando a marzo sono andato in Michigan, sapevo più o meno cosa avrei trovato. Quando a giugno sono andato in Texas, molte cose mi avevano stupito, ma le cose che mi avevano stupito avevano preso forma davanti a me in modo evidente. La California invece mi ha spiazzato. È un posto che si mostra e si nasconde, con i ricchi più ricchi e i poveri più poveri, con l’agricoltura e l’industria più innovativa del mondo, con una popolazione in gran maggioranza di sinistra ma che guarda a ogni governo federale con distacco e fastidio. La California ha tante identità mescolate, e ci sono posti e persone della California che una vera identità, al primo sguardo, sembrano non averla. Oggi viene descritta così: il centro della resistenza contro Donald Trump.
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Questa settimana sono successe due cose che aiutano a capire molto bene che Paese sono oggi gli Stati Uniti, e che presidente è Donald Trump. Una riguarda una storia di cui abbiamo già parlato – l’enorme e letale abuso di farmaci antidolorifici tra gli americani – e il noto potere delle lobby a Washington; l’altra riguarda alcune delle caratteristiche peculiari di Trump, dalla mancanza di empatia alla facilità con cui dice cose false. Solo che stavolta le ha dette su un tema doloroso e delicato, su cui di solito i politici sono attentissimi.
È arrivata la prima vera grande crisi. Anzi, due: la catastrofe umanitaria di Porto Rico e la strage di Las Vegas costringono un’amministrazione fin qui caotica, disorganizzata e distratta dall’inchiesta sulla Russia a gestire due situazioni di grande complessità logistica e politica, che potranno avere conseguenze durature e imprevedibili sulla Casa Bianca e sugli Stati Uniti.
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C’è una storia che forse abbiamo un po’ accantonato nelle ultime settimane, perché si muove sottotraccia. A volte, capita che non se ne senta parlare per un po’, ma questo non vuol dire che sia tutto fermo, anzi. L’inchiesta sulle interferenze della Russia e sui rapporti tra gli uomini di Putin e il comitato Trump si sta muovendo con rapidità; gli investigatori stanno cercando (e in qualche caso anche trovando) riscontri in modo molto aggressivo, provando a convincere alcuni grandi alleati di Trump a raccontare quello che sanno, e puntando anche sul ruolo di un altro gigante: Facebook.
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Non è una novità che si parli di estrema destra in America. La storia degli Stati Uniti, soprattutto nel Novecento, si è intrecciata più di una volta alle azioni di gruppi e movimenti razzisti, antisemiti e neonazisti, che con una certa regolarità passano dall’essere marginali a scoprirsi improvvisamente protagonisti di grandi agitazioni e fatti che cambiano l’America. È un ciclo: è già successo e succederà ancora, a prescindere da Charlottesville. Ma Charlottesville è stata un punto di svolta.
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Per una settimana ci prendiamo una pausa dall’attualità per ripercorrere forse la giornata più traumatica e incredibile della storia politica statunitense del Novecento, i cui luoghi ho visitato durante il mio viaggio di giugno in Texas. È una storia che pensiamo di conoscerla a memoria, e invece molti di noi ne sanno pochissimo: soprattutto di tutti i dettagli che ne fanno un romanzo e di quelle cose – poche, ma importanti – che ancora non conosciamo.
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Come una settimana che per l’amministrazione Trump era persino cominciata bene (con l’audizione positiva di Jared Kushner al Senato), si è trasformata in un drammatico susseguirsi di crisi, errori, rese dei conti e fallimenti, fino a portare all’ennesimo flop della riforma sanitaria al Congresso e al licenziamento del capo dello staff della Casa Bianca, Reince Priebus.
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Da un anno va avanti la storia delle interferenze russe nella campagna elettorale americana e della presunta collaborazione del comitato Trump con i russi. Da questa settimana sappiamo due cose in più, fondamentali e potenzialmente decisive: che almeno una volta lo stato maggiore del comitato Trump incontrò degli emissari del governo russo, e che lo stato maggiore del comitato Trump sapeva che il governo russo aveva intenzione di aiutare Donald Trump a diventare presidente degli Stati Uniti. Lo sappiamo perché abbiamo letto le email autentiche con cui fu organizzato un apposito incontro nel giugno del 2016. Come accadrebbe in un film, questa risposta però apre tutta una serie di nuove domande: il presidente Trump sapeva di questo incontro? Ce ne sono stati altri? Chi è che dentro la Casa Bianca sta lavorando per indebolire Trump, passando queste informazioni al New York Times? E infine: perché i Trump sembrano non rendersi conto del guaio in cui si sono cacciati?
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La seconda parte del viaggio di Francesco Costa in Texas.
Il confine tra Texas e Messico è una cosa strana: allo stesso tempo è presentissimo e assente. Da una parte lo vedi nelle altissime recinzioni e nei continui posti di blocco della polizia di frontiera, lo ascolti nelle conversazioni tra le persone e lo osservi nelle loro vite; dall’altra Texas e Messico sono così simili, così allacciati dai rapporti attuali e soprattutto dalla storia, che a volte sembra incredibile che ci sia un confine. La proposta di costruire un muro al confine è stata centrale nella campagna elettorale di Donald Trump, eppure in Texas non convince moltissimo nemmeno i Repubblicani; che invece vogliono usare la mano pesante contro gli immigrati irregolari che sono già entrati, per cercare di rallentare i velocissimi cambiamenti in corso nella loro società.
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Sono stato in Texas, ci ho passato nove giorni, ho guidato per quasi 3.000 chilometri, ho visto le grandi città e i paesini da quattro case quattro, ho attraversato il deserto e ho percorso tutto il confine fino a mettere piede in Messico; ho parlato con giornalisti, attivisti, politici e tante persone comuni; ho visto tutte le cose che noi europei associamo istintivamente al Texas – i ranch, i cowboy, i pozzi di petrolio – ma ne ho viste anche tantissime altre, sorprendenti, diverse e importanti. Perché il Texas sta cambiando moltissimo, è meno conservatore di un tempo ed è il centro di gravità della politica statunitense. E perché ha un’identità così forte e precisa che, osservandola da vicino, permette di capire qualcosa su chi sono gli americani, e soprattutto su chi saranno.
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C’è una cosa che in America uccide più delle armi da fuoco e degli incidenti stradali. E al contrario delle armi da fuoco e degli incidenti stradali, è un problema relativamente recente e in grandissima espansione, che colpisce un pezzo grande ma ben preciso della popolazione americana: e non è il pezzo che immaginate. Non solo: esiste una correlazione diretta tra l’estensione di questo fenomeno e il voto a favore di Donald Trump alle ultime elezioni presidenziali. Conoscere la storia e le ragioni della dipendenza da farmaci a base di oppiacei negli Stati Uniti è un buon modo per capire un po’ più in profondità la vita di un pezzo di quella cosiddetta “America profonda” che si vede pochissimo sui giornali, invece che limitarsi a etichettarla in base ai soliti luoghi comuni.
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È stata la settimana più difficile per Trump da quando è alla Casa Bianca, e quella che nel lungo termine potrebbe segnare la sua presidenza. La storia delle informazioni riservate rivelate alla Russia ha messo di nuovo in dubbio le sue capacità di giudizio, mentre il licenziamento di James Comey da capo dell’FBI ha portato all’accusa pesante di aver cercato di condizionare le indagini sulle interferenze russe nella campagna elettorale. Bisogna conoscere la storia dello Watergate, per capire la portata di questi guai: Nixon si dimise per aver cercato di ostacolare le indagini, e non per l’episodio da cui cominciò lo scandalo, del quale non conosciamo ancora con certezza i veri responsabili. C’è una cosa, poi, che rende ancora più complessa questa situazione, per chi sta alla Casa Bianca e per noi che la seguiamo: con Trump è cambiato il peso e il significato del linguaggio nella politica americana.
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Sei mesi dopo il voto, abbiamo molti più elementi per capire cosa è andato storto per la candidata dei Democratici lo scorso 8 novembre. È vero, come dice lei, che ha perso le elezioni solo per la decisione dell’FBI di annunciare la riapertura dell’indagine sulle sue email? Perché l’FBI ha parlato pubblicamente in campagna elettorale dell’indagine su Clinton e non su quella su Trump e la Russia, che andava avanti da luglio? Nel frattempo i Repubblicani sono riusciti ad approvare una legge di bilancio, pur tradendo molte delle promesse elettorali di Trump, e hanno ottenuto la loro prima vera vittoria politica al Congresso: alla Camera è passata una legge che abolisce diverse parti importanti della riforma sanitaria di Obama. La vera battaglia sulla sanità e Obamacare però si giocherà al Senato.
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Nel momento in cui il presidente americano ha cominciato a utilizzare la potenza militare statunitense sul serio e con una certa soddisfazione, è cresciuta moltissimo la tensione verbale e militare contro uno dei regimi più repressivi, violenti e imprevedibili del mondo: la Corea del Nord. Qual è la strategia della Casa Bianca e cosa può ottenere?
Nel frattempo, ci sono altre cose interessanti di cui parlare: per esempio il governo americano che rischia di finire presto senza soldi, o il candidato Democratico trentenne che rischia di strappare ai Repubblicani un seggio importante alla Camera in Georgia.
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In sette giorni è successo veramente di tutto: dalla sorprendente decisione di Trump di bombardare il regime di Assad in Siria alla nomina del nuovo giudice della Corte Suprema, per ottenere la quale i Repubblicani hanno cambiato per sempre il funzionamento del Senato. Poi la rimozione di Steve Bannon, il più influente e controverso consigliere di Trump, da un importante organo di consulenza del presidente sulla sicurezza nazionale, e un po’ di aggiornamenti sull’inchiesta dell’FBI sui rapporti tra Trump e la Russia. Infine, come sempre, una storia: per non perdere di vista gli americani, mentre raccontiamo il loro presidente.
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Cinquant’anni fa la città di Flint, in Michigan, era descritta come un modello di prosperità e sviluppo: la città del sogno americano. Oggi Flint è considerata l’esempio di come quel sogno può diventare un incubo: dagli anni Novanta è una delle città più povere e pericolose d’America, e dal 2014 per quasi due anni dai suoi rubinetti è uscita acqua gravemente contaminata, che ha avvelenato la popolazione. La storia di un disastro che ha cause molto diverse – dalla deindustrializzazione al razzismo – e che permette di capire un pezzo importante degli attuali problemi di molte zone degli Stati Uniti d’America.
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Qui puoi trovare le traduzioni degli inserti audio in inglese e i link ai contenuti aggiuntivi sulla puntata.
Cosa ho imparato e cosa ho scoperto trascorrendo dieci giorni in uno degli Stati che hanno dato la vittoria a Donald Trump. Il Michigan ha una storia esemplare dei problemi che sta affrontando una grossa parte dell’America: la decadenza di città e settori industriali una volta molto prosperi, la crescita delle diseguaglianze, la difficoltà di integrare vicende umane, identità e religioni diverse.
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Si è concluso il primo mese di Donald Trump alla presidenza degli Stati Uniti ed è il momento di fare un primo cauto bilancio: non per trarre delle conclusioni, ma per cercare di imparare qualcosa. È stato un mese agitato, ricco di eventi imprevedibili e di gaffe allo stesso tempo comiche e inquietanti, ma per i sostenitori di Trump non è stato affatto un mese disastroso, e bisognerà tenerne conto. Nel frattempo, però, l’unica storia che davvero minaccia la presidenza di Trump – quella sui suoi rapporti con la Russia – ha avuto un’altra puntata che sembra uscita da un film sulla Guerra fredda, e invece è vera.
Di seguito puoi ascoltare tutte le puntate precedenti (qui anche su iTunes):
Siamo abituati a pensare che la persona più potente degli Stati Uniti, dopo il presidente, sia il vicepresidente, ma non è così. Le prime tre settimane di amministrazione Trump ci hanno fatto capire chi sono le persone più potenti e influenti alla Casa Bianca, e come il loro rapporto può plasmare le politiche di Donald Trump. Intanto, questa settimana sono state ratificate le nomine di due controversi membri del governo Trump; i Democratici hanno trovato – grazie ai Repubblicani – la vera leader politica dell’opposizione a Trump; un tribunale federale ha confermato la sospensione del contestato “muslim ban”, l’ordine esecutivo della Casa Bianca sull’immigrazione, che ora andrà probabilmente alla Corte Suprema. Infine, qualche storia sul Michigan: lo stato che forse più di tutti gli altri ha deciso l’esito delle ultime elezioni presidenziali, il primo che visiterò quest’anno per cercare di capire meglio l’America di Donald Trump.
Quali sono state le prime decisioni di Trump e quali saranno le sue conseguenze, nel breve e nel lungo termine; che cosa succederà al muro, alla riforma sanitaria e ai trattati di libero scambio; l’uso spregiudicato delle bugie e il rapporto con la stampa che è già molto turbolento. E poi: una storia del 1994 che Trump farebbe bene a conoscere, e una del 2016 che può darci una mano a capire perché è diventato presidente.
Le formule di rito, i discorsi, le frasi celebri: manca poco all’insediamento di Donald Trump e, ripercorrendo la storia delle cerimonie di investitura dei presidenti, Francesco Costa cerca di immaginare come sarà la nuova America dopo le elezioni dell’8 novembre 2016. Per tutto il 2017 il vicedirettore de ilPost.it continuerà il viaggio, alla ricerca di risposte.
Questa è una tappa prima della partenza: qualcosa in meno di una puntata, ma qualcosa in più di un trailer; un assaggio di quello che, dal 21 gennaio, sarà di nuovo Da Costa a Costa.
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