La trascrizione completa del quarto episodio del podcast Pompei. La città viva. The complete Italian transcription of Pompei. La città viva fourth episode.
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[VALERIA PARRELLA] Io sono stata una bambina molto fortunata. Perché io potevo entrare negli scavi all’ora in cui non c’entrava nessuno, perché andavo a prendere mia madre in ufficio. L’ufficio non era nell’edificio della Soprintendenza, bensì era all’interno degli scavi di Pompei. Io attraversavo gli scavi in senso contrario rispetto agli ultimi turisti che al tramonto sciamavano, come tutti i siti archeologici in Italia… È anche bellissimo dirlo perché è una parola bellissima: gli scavi chiudono al tramonto.
Vi ho già raccontato che Valeria Parrella ha un legame particolare con Pompei. Ecco, ora cominciate a capire il perché: la scrittrice era di casa tra le rovine antiche e questo è più di un ricordo d’infanzia. Lei lo rievoca come una favola, piena di stupore e meraviglia. Perché Pompei è un motore che genera continuamente storie, minime e universali. È sufficiente camminare per le sue strade, affacciarsi alle porte delle domus, sostare di fronte ai banconi delle botteghe: il suo potere generativo è infinito, e se è arrivato intatto fino a noi lo si deve al lavoro delle donne e degli uomini che dal 1748 a oggi ne hanno riscritto la grande storia.
[VALERIA PARRELLA] Ecco, al tramonto si vedevano questi turisti stranieri con le bandierine e gli ombrellini che cominciavano in fila ad uscire, ed era quello il momento in cui entravo. Io ricordo passeggiate molto belle, fatte proprio a quell’ora perché magari mamma doveva finire di sistemare le carte, salutare i colleghi, passare il cartellino – è stata una dipendente del Ministero dei Beni culturali e ambientali – e io nel frattempo mi dicevo: “Vabbè, mi vado a fare un giretto a piazza del Foro, un giretto a Via dell’Abbondanza”.
[SIGLA] Questo è Pompei. La città viva.
La fine, la scoperta, la rinascita. Il racconto di uno dei luoghi più affascinanti al mondo. Un podcast del Parco Archeologico di Pompei, prodotto da Piano P in collaborazione con Electa. Io sono Carlo Annese.
Quarto episodio. I volti della ricerca
Via dell’Abbondanza era il centro della vita di Pompei antica. Sulla strada affacciano un gruppo di abitazioni e quella che era una grande panetteria – chissà quante volte ci sarà passata davanti Valeria Parrella, nei suoi giretti da bambina. La sala da pranzo di una delle domus è decorata con le scene di tre banchetti: in uno di questi una coppia si scambia effusioni decisamente pudiche, in confronto ad altre raffigurazioni pompeiane di sesso esplicito. Da qui il nome che gli archeologi hanno dato al luogo: l’Insula dei Casti Amanti. Alla sinistra del forno c’è una stanza che era adibita alla preparazione dell’impasto, dove una finestrella faceva penetrare un po’ di luce.
[SPEAKER MARY BEARD] Doveva essere un lavoro soffocante a causa del caldo, svolto in ambienti squallidi. Ma era stato fatto qualche tentativo per renderlo più gradevole: su una parete era dipinta una Venere nuda che si contemplava allo specchio. Difficile non pensare alle pin up delle fabbriche moderne.
Mary Beard è un’eccellente divulgatrice della storia antica, e lo dimostra anche in questo brano tratto da uno dei suoi libri su Pompei: paragonando un ritratto erotico del primo secolo dopo Cristo a quei calendari sexy appesi ai muri delle officine di oggi, fa un bel salto nel tempo. Ma non succede solo a lei.
[MASSIMO OSANNA] Pompei, a mio avviso, è uno dei luoghi emblematici per avvertire quella che io chiamo la “prossimità del passato”.
Questo è Massimo Osanna, direttore del Parco Archeologico.
[MASSIMO OSANNA] Girando per le strade di Pompei chiunque si trova a confrontarsi in maniera straordinaria con un passato che emerge in maniera vivida e conservato in maniera straordinaria. Una realtà che già aveva impressionato i visitatori sin dal Settecento: pensiamo alle impressioni di Goethe che gira per le strade di Pompei e la trova una delle esperienze più straordinarie mai fatte. Ma ci sono stati altri visitatori di eccellenza, per esempio Cocteau o l’artista Edouard Sand, che ha tra l’altro fatto un bellissimo dipinto ottocentesco sugli scavi di Pompei, i quali invece segnalano proprio in maniera forte nei loro scritti questo senso di vicinanza che invece le rovine esprimono.
Nel libro Pompei – Il tempo ritrovato, pubblicato da Rizzoli nel 2019, Massimo Osanna ha raccontato alcuni dei ritrovamenti più recenti, lasciando immaginare che cosa potrebbe venire fuori di importante, con un lavoro sistematico, nei 22 ettari ancora da dissotterrare. Dallo street food ai gioielli, dal gusto per i giardini al sistema fognario, tutto avvicina Pompei al nostro tempo in modo impressionante: la città morta si fa viva e contemporanea.
[MASSIMO OSANNA] Quell’emergere della vita quotidiana è unico e assoluto, e ci permette di confrontare i nostri usi con quelli dei pompeiani di allora. I nostri usi che spesso, stranamente, sono in continuità o comunque non sono così distanti, perché poi raccontano un po’ dei valori e delle emozioni fondamentali dell’essere umano: l’amore, l’invidia, l’amicizia.
E non solo quelli. Raccontano anche la passione per gli eroi più amati, quelle che oggi definiremmo star. Come Enea, che era ai primi posti della Top Ten dell’epoca. In diversi luoghi sono state trovate iscrizioni che riportano versi dell’Eneide, a volte anche in forma di parodia. La facciata della casa del follatore Marcus Fabius Ululitremulus, per esempio, era decorata con una rappresentazione di Enea in fuga da Troia. Di fianco, qualche buontempone ha scritto: Fullones ululamque cano, non arma virumque, «I lavandai e la civetta canto, non le armi e l’uomo». È un esametro che rievoca chiaramente l’incipit del poema – «Armi canto e l’uomo che primo dai lidi di Troia» eccetera eccetera – a testimonianza della sua notorietà. A Pompei c’era una vera e propria Virgilio-mania.
[ANDREA MARCOLONGO] In sé il mito di Enea e l’avventura epica narrata da Virgilio raccoglie proprio lo spirito dell’essere romano, che guardava ovviamente al modello culturale pedagogico del mondo greco, ma che ha saputo, grazie alla storia di Enea e al suo sviluppo mitologico, farlo proprio.
Lei è Andrea Marcolongo, autrice di libri di successo sulla lingua greca e latina e sui miti classici. L’ultimo si intitola La lezione di Enea, appunto. Enea è l’eroe che salva anziani e bambini portandoseli sulle spalle. Che viaggia su una nave senza nocchiero alla ricerca di una terra in cui ricominciare. È l’uomo che non ha più niente, ma possiede ancora la capacità di resistere e sperare. Una lezione quanto mai attuale.
[ANDREA MARCOLONGO] Il mito di Enea è quasi un riconoscersi in un’identità che non è soltanto greca, non è soltanto romana, ma è profondamente mediterranea. Non soltanto per lo spostamento geografico, ovviamente – Enea parte da Troia e arriva sulle coste del Lazio, dove là fonderà Roma – ma proprio per questa sua attitudine caratteriale. C’è proprio un passo nell’Eneide, quando Enea sbarca nel Lazio, quindi in Italia, incontra i popoli che vivono in quel territorio – i popoli italici – ed è lì in qualche modo che Enea affida il suo manifesto culturale. Ovvero c’è un capo locale che dipende da Turno, dall’antagonista di Enea, che dice: “Noi italici non badiamo alla cultura, non badiamo alle arti, non badiamo al Bello”: Ed Enea risponde: “Io fonderò l’Italia, Roma, l’Italia diventerà la mia patria, diventerà la patria dell’arte”.
Non è solo l’Eneide, comunque. Arte e graffiti abbondano anche nella Casa degli Amanti, da non confondersi con l’Insula dei Casti Amanti di cui vi parlavo prima. Sulla parete in fondo al giardino, in un quadretto con delle anatre, qualcuno ha scritto:
[LETTURA GRAFFITO] «Gli amanti conducono, come le api, una vita dolce come il miele».
Subito sotto, qualcun altro, disilluso, aggiunge: «Velle», Magari! Dev’essere stata una donna, invece, a lasciare questo messaggio al suo partner:
[LETTURA GRAFFITO] «Apprendi la danza che abbiamo fatto insieme». Richiami che giungono a noi dal passato, ma di cui sappiamo perfettamente decodificare il senso. Sono soprattutto gli oggetti, però, a permetterci di tendere un ideale filo di Arianna nel labirinto del tempo. Oggetti, spesso, con un aspetto talmente moderno che potrebbero venire dalle nostre case, e nella cui materialità si può leggere la biografia di chi li ha usati.
[LUANA TONIOLO] In questi anni la nostra strategia di musealizzazione è stata quella del museo diffuso che risponde anche a quelle che sono le tendenze più recenti della museografia.
Questa è Luana Toniolo, responsabile delle Regiones I e II del Parco Archeologico. In realtà, il museo diffuso non è una novità recente: il primo a realizzarlo, all’inizio del Novecento, fu il sovrintendente Vittorio Spinazzola. Di lui vi parlerò tra poco. Prima, però, cerchiamo di capire che cos’è il museo diffuso.
[LUANA TONIOLO] Spinazzola, man mano che scavava e restaurava, esponeva anche gli oggetti che scavava, e questo per l’epoca era molto importante, per certi versi anche rivoluzionario, perché non esponeva le belle statue e gli oggetti più ricercati, ma ad esempio le pentole, i vasi in vetro, le cose insomma di tutti i giorni, che poi sono la cosa tipica e caratteristica di Pompei. E un caso famoso è stato proprio quello del Termopolio di Asellina: noi abbiamo tutte le foto di scavo che ci mostrano diverse fasi di allestimento, dove lui sul bancone, all’interno di una vetrina, aveva inserito proprio tutto quello che tu trovavi in un termopolium, quindi i piatti, le anfore da cui prendere il vino, le brocche da cui versarlo.
Il sistema del museo diffuso era stato abbandonato negli anni Sessanta del ‘900, un periodo di incuria e degrado durante il quale, con il turismo di massa, sono aumentati anche i furti. Oggi viene riproposto con telecamere e vetrine blindate, per consentire ai visitatori non solo di vedere gli ambienti recuperati, ma di percepire che cosa vi accadesse. In questo modo, grazie anche alla documentazione fotografica di cui vi parlerò tra un attimo, è stata riallestita, per esempio, la cucina della fullonica di Stefano, con i piatti sul bancone e le pentole appese ai chiodi sulle pareti, nelle stesse posizioni in cui li aveva messi Vittorio Spinazzola nel 1916.
[LUANA TONIOLO] Un po’ perché vogliamo che Pompei sia anche, come diceva Orhan Pamuk, una specie di museo delle piccole storie. Quindi non solo la grande storia, ma a Pompei possiamo vedere le piccole storie di tutti i giorni. Negli ultimi tempi sono stati vari: abbiamo iniziato con la Fullonica e poi abbiamo continuato diciamo in tutte le case che abbiamo aperto. Quindi la Casa degli amanti, che abbiamo riaperto proprio quest’anno, la Casa dell’Arario Fiorito, la Casa di Championet, dove abbiamo esposto anche i risultati degli scavi recenti, non solo i reperti dei grandi scavi. E lo continueremo a fare con i Granai del Foro, che verranno inaugurati nel 2021, e con altre iniziative man mano che apriamo le nuove case.
La Casa degli Amanti è una delle poche ad aver conservato il piano superiore del peristilio, cioè del porticato del giardinetto interno. La bellezza di questo luogo, con la sua perfetta armonia tra interno ed esterno, aveva incantato Le Corbusier, che, come vi ho raccontato nel secondo episodio, era stato profondamente segnato dalla visita a Pompei. La conservazione del peristilio è un caso eccezionale, perché la furia del vulcano in genere ha distrutto i piani alti degli edifici. Ma è anche il frutto di una sapiente opera di scavo e di restauro. La Pompei immaginaria – ormai lo avrete capito – può prendere forma solo grazie al procedere della ricerca archeologica, e non esisterebbe senza un’altra grande storia: la storia degli scavi.
[MASSIMO OSANNA] Si pensa che Pompei sia una delle città più note dell’antichità proprio per lo stato di conservazione, ma non è così, perché gli scavi sono stati fatti in gran parte in epoche in cui la metodologia non era assolutamente adeguata, in cui la documentazione che si realizzava non era adeguata agli standard che abbiamo oggi come aspetto imprescindibile. Per cui le domande ancora da fare a Pompei sono tantissime e la possibilità di conoscenza è infinita. Lo ha dimostrato lo scavo che abbiamo fatto negli ultimi anni, quello della Regio V (ma non solo), dove interrogare il terreno ha fatto recuperare dei dati straordinari, devo dire unici.
Non sempre edificanti, per la verità. Quegli interventi hanno infatti permesso di recuperare anche dati preziosi sulla storia dei tanti scavi clandestini: fin da subito, in pratica, poco dopo il 79 d.C., Pompei è stata spesso saccheggiata sotto la superficie, con un sistema ingegnoso:
[MASSIMO OSANNA] Una serie di cunicoli che hanno intercettato le strutture, le hanno attraversate, hanno depredato e in alcuni casi è anche stato possibile datarli: in uno dei cunicoli è venuta fuori una moneta del 1630, che ci fa capire proprio come è stata continua questa attività di saccheggio.
Durante l’epoca borbonica – dopo la scoperta fortuita da parte di un contadino, nel 1710, di alcuni marmi appartenenti al Teatro di Ercolano – a partire dal 1748 gli scavi conobbero alterne vicende sotto la direzione dello spagnolo Roque Joaquìn de Alcubierre. Con l’Unità d’Italia, però, prese il via una nuova stagione archeologica. La direzione fu affidata a Giuseppe Fiorelli, a cui si deve un approccio più sistematico ai lavori. Fiorelli suddivise la città in Regiones e Insulae, e modernizzò tutti gli aspetti connessi al sito, dalla ricerca alla tutela, alla fruizione. Ma a lui siamo debitori soprattutto di un’intuizione tuttora indispensabile.
È una mattina di febbraio del 1863. Si sta scavando in un vicolo vicino alle Terme Stabiane, quando riemerge un piccolo tesoro di monete e gioielli avvolti in un brandello di stoffa, insieme a due chiavi di ferro. A darne notizia è lo stesso Fiorelli, in una lettera al «Giornale di Napoli», che titola a grandi lettere Scoverta pompejana.
[SPEAKER FIORELLI] Ricercando quella terra accuratamente perché nulla sfuggisse di quel prezioso tesoretto, si giunse ad un punto dove la terra sfondando sotto la cazzuola, mostrò una cavità vuota e profonda, tanto da potervi introdurre un braccio e cavarne fuori delle ossa. Mi avvidi allora ch’era quella l’impressione di un corpo umano, e pensai che colandovi dentro prontamente la scagliola, si sarebbe ottenuto il rilievo della intiera persona. L’esito ha superato ogni mia aspettazione.
In realtà, già nel ‘700 si era usato il gesso per realizzare dei calchi, ma è Fiorelli ad affinare la tecnica e a intuire che quei vuoti nel terreno altro non sono che individui. Queste speciali, diciamo, “sculture dal vero” che si possono vedere solo a Pompei, trattengono in sé i corpi delle vittime negli atteggiamenti assunti al momento della morte. Come i due uomini ricostruiti a novembre del 2020 a Civita Giuliana, o come il bambino o il cane ripiegato su se stesso, diventati icone simbolo del Parco Archeologico.
Come altri momenti fondamentali della storia di Pompei, anche questo ha avuto un testimone letterario: lo scrittore Luigi Settembrini.
[SPEAKER SETTEMBRINI] Finora si è scoverto templi, case ed altri oggetti che interessano la curiosità delle persone colte, degli artisti e degli archeologi; ma ora tu, o mio Fiorelli, hai scoverto il dolore umano, e chiunque è uomo lo sente.
Settembrini aveva visto i primi calchi di Fiorelli quando ancora si trovavano nel vicolo vicino alle Terme diventato poi Via degli Scheletri: quattro fuggiaschi – un uomo dall’enorme statura, due donne e una ragazzina. Le impronte restituivano tratti dei volti, bocche spalancate in cui mancano alcuni denti, dettagli delle capigliature. A prima vista, si è ipotizzato che fossero una famiglia. I metodi di ricerca però si sono via via perfezionati e hanno consentito di andare ancora più nel dettaglio.
[LUANA TONIOLO] I calchi sono innanzitutto materia organica, perché c’è lo scheletro della vittima, quindi sono una cosa nuova su cui di fatto nessuno si era mai trovato ad operare, perché appunto non era anche come restaurare un semplice gesso. Quindi abbiamo veramente dovuto studiare e capire come fare. Fondamentale per lo studio dei calchi sono state la parte di diagnostica, con le immagini ai raggi ultravioletti, per capire cosa c’era dentro il gesso.
Due calchi di via degli Scheletri, insieme ad altri 19, sono tornati visibili al pubblico nella grande mostra del 2015 su Pompei e l’Europa.
[LUANA TONIOLO] La parte di restauro è sempre stata accompagnata dallo studio e quindi anche da tutta una serie di analisi nuove, specifiche. Tramite la TAC potevamo vedere che cosa c’era all’interno del gesso. Tutti questi studi poi chiaramente sono stati accompagnati anche dall’antropologo fisico, che tentava di ricomporre gli scheletri. Abbiamo visto cosa c’era sotto il gesso: ad esempio, nel caso di un calco di un bambino abbiamo visto la bulla, questo amuleto che i bambini portano dalla nascita fino al passaggio all’età adulta. Abbiamo potuto anche studiare ad esempio i denti, quindi abbiamo visto che avevano problemi di igiene orale. E poi abbiamo prelevato anche piccolissimi campioni delle ossa conservate per fare l’analisi del DNA, per capire ad esempio se alcuni gruppi che abbiamo trovato insieme erano imparentati per via materna. Abbiamo avuto quindi importanti informazioni ad esempio poi sulle patologie, sull’età di morte, appunto sull’alimentazione se era sana oppure no.
Dopo la mostra del 2015 su Pompei e l’Europa i calchi sono stati ricollocati all’interno degli scavi, riprendendo l’idea originaria di Vittorio Spinazzola del museo diffuso. Proprio Spinazzola, agli inizi del ‘900, aveva utilizzato in un tratto di via dell’Abbondanza il metodo dello scavo stratigrafico, un metodo che consiste nel partire dall’alto e togliere strati di terreno, catalogando e datando via via i materiali trovati in ogni strato. Col passare degli anni, questo metodo si è rivelato sempre più importante, insieme a un’altra pratica.
[SPEAKER GRAFFITO] Niente può durare in eterno. Dopo aver fulgidamente brillato, il sole si rituffa nell’oceano; la luna che ora era piena ecco decresce. La furia dei venti sovente si muta in brezza leggera.
Questo è il testo di un graffito tracciato con lettere rosse sul muro della bottega di Successus, in via dell’Abbondanza. È stato trovato nel 1913 da Matteo Della Corte, archeologo epigrafista e archivista che lavorava sotto la direzione di Spinazzola. Suonava decisamente profetico, al punto che fu quello stesso graffito a scomparire, nell’inverno del 1915, cancellato da una pioggia particolarmente violenta che fece crollare il muro. Nulla può durare in eterno, appunto. È il motivo per cui, proprio in quegli anni, emerse la necessità della documentazione fotografica.
[GRETE STEFANI] Nella seconda metà dell’Ottocento fotografarono a Pompei numerosi fotografi, non solo di Napoli, ma anche di Roma, di Firenze, eccetera. Posso citare alcuni nomi: gli Alinari, Amodio, Bruno, Broggi, Majorino, Maiuri, Rive e Sommer, che facevano le fotografie per venderle, sia agli studiosi ma anche ai visitatori comuni. Avevano però l’obbligo di consegnare due copie di tutte le fotografie che facevano allo Stato.
Lei è Grete Stefani, funzionario archeologo che lavora anche alla valorizzazione dell’archivio fotografico degli scavi. Il primo a perorare la causa dell’acquisto di una macchina fotografica, nel 1854, fu il direttore degli scavi Gaetano Genovese. Il re di Napoli accettò, ma si smise quasi subito di comprare lastre, carta e reagenti per le stampe, e si tornò a servirsi di fotografi esterni, interessati però più all’aspetto artistico che a quello scientifico.
[GRETE STEFANI] Si procede di nuovo con con un sistema organizzato agli inizi del secolo, nel 1900, con Antonio Sogliano, direttore degli scavi di Pompei, che fa per la prima volta un laboratorio fotografico. E quindi c’è finalmente personale interno che ha il compito di eseguire la documentazione fotografica, che è costituita da lastre di vetro. Sono state poi catalogate, alla fine degli anni Trenta, da Matteo Della Corte, ed erano a disposizione degli studiosi che volevano approfondire i vari aspetti di Pompei.
È commovente scorrere le vecchie foto pubblicate sul profilo Instagram del Parco Archeologico. Una dama solitaria con un ombrellino passeggia in un vasto terreno punteggiato dai pini marittimi, con il Vesuvio sullo sfondo; in un’altra, una fila compatta di scavatori tutti uguali, tutti con i baffoni a manubrio, è in posa sul bordo d’un terrapieno.
[GRETE STEFANI] Le immagini ci fanno vedere anche quanto lavoro c’è stato dietro. Lo scavo, il restauro e la manutenzione sono stati compiuti, anno dopo anno dopo anno, da questa “anonima folla” (così viene chiamata da uno dei soprintendenti di poco tempo fa) che però ha prodotto la fatica necessaria per mettere in luce le case, le strade, e poi per mantenerle e far sì che questa manutenzione dia la possibilità di conservarle il più a lungo possibile.
Oggi le tecniche di documentazione sono cambiate. Eppure, istintivamente, le inquadrature dei visitatori sembrano le stesse di due secoli fa: per scattare, si aspetta che non passi nessuno. Pompei deve mostrarsi nella sua pura essenza: la magìa che conduce il passato fino a noi non si verifica, se il presente è troppo invadente. Fino all’Unità d’Italia, peraltro, gli scavi non erano aperti a tutti, occorreva un permesso speciale. È stato Giuseppe Fiorelli, l’inventore dei calchi, a rendere l’area archeologica accessibile col pagamento di un biglietto. Prima che Amedeo Maiuri, a metà del ‘900, si spingesse ancora oltre: la necessità di aprire al pubblico non poteva più essere ignorata.
Maiuri è stato una figura eccezionale, di archeologo e di intellettuale. Sentite come lo descrive Guido Piovene nel Viaggio in Italia, un reportage che ci accompagnerà anche nei prossimi episodi:
[SPEAKER PIOVENE] L’archeologo Amedeo Maiuri è la sublimazione scientifica di un modo fantastico-familiare di sentire l’archeologia. Di una statura media tendente al piccolo, con una spalla lievemente più alta, Maiuri sembra guardarti sempre un po’ di sghimbescio; e, così di sghimbescio, ti avvolge nello sguardo dei suoi occhi chiari, che possono essere anche duri e foranti, con una straordinaria rapidità di passaggi, ma quasi sempre sono dolci. È quella dolcezza dal fondo ironico, quella bonomìa graziosa, la gentilezza seducente e quasi immateriale che crea un’atmosfera euforica, con cui Napoli viene incontro al forestiero. È, insomma, uno dei grandi signori di questa città signorile; felice di ospitare nei propri scavi e di farne gli onori; in una città nella quale anche la guida del Vesuvio non vuole mostrarci il vulcano, ma fare gli onori del vulcano.
Amedeo Maiuri è stato sopvintendente dal 1924 al 1961. Il suo approccio ha rivoluzionato l’archeologia campana, dando per primo a Pompei il volto che oggi conosciamo. Lui stesso lo ha raccontato in un’autobiografia uscita nel 1958.
[SPEAKER MAIURI] Indubbio è che là dove le strutture superstiti lo consentono, il ricostruire la copertura di un atrio, di un cubiculo, di un peristilio, non giova solo a salvare pitture, stucchi e mosaici, ma vale anche a far bene intendere, col rimettere in funzione strutture e architetture, il particolare ambiente di una casa e a farne rivivere, con le sue luci originarie, la sua intimità di vita.
Rispetto all’idea di Fiorelli e Spinazzola di valorizzare una domus riallestendola con tutte le suppellettili, Maiuri decide di attuare il cosiddetto restauro ricostruttivo. Che significa? Beh, significa che non solo gli arredi e i manufatti devono essere lasciati, come si dice, in situ, sul posto, ma i muri vanno rialzati e rivestiti con l’intonaco originario, i giardini vanno ripiantati e l’acqua deve tornare a scorrere nelle fontane. Il tutto senza camuffare il nuovo per antico, ma al contrario dando la possibilità al visitatore di distinguere chiaramente gli interventi successivi. La necessità del restauro, secondo Maiuri, poggiava da un lato sul dovere di conservare, dall’altro sul desiderio di aprire alla fruizione del pubblico e consentire agli oggetti e ai luoghi di parlare, di raccontare, attraverso i volumi e le forme. Un’eredità raccolta, alcuni decenni più tardi, da Massimo Osanna.
[MASSIMO OSANNA] Non posso che dire che sediamo sulle spalle di giganti. E Maiuri aggiunge anche una capacità straordinaria di comunicazione. Quando si leggono i suoi scritti di divulgazione si coglie questa sua capacità di divulgare in maniera alta, con un italiano bellissimo e con una prosa che desta l’interesse di chiunque. Ma è interessante che questa sua divulgazione non solo la scrive, ma la applica anche nella sua valorizzazione di Pompei, se posso usare questo termine forse improprio, perché a Pompei lui cerca di fare un percorso che parla. E questa attenzione che lui aveva agli aspetti della vita quotidiana di Pompei sono ancora importanti oggi nel nostro approccio alla comunicazione. Questo portato di humanitas di cui sono cariche le rovine di Pompei, lo sente, lo recepisce e lo comunica in maniera assolutamente brillante.
Con Maiuri, insomma, prende vita una nuova idea di archeologia. E si diffonde il metodo dello scavo stratigrafico che negli anni permetterà di consolidare alcuni edifici e consentirà di individuare le tracce di alcuni giardini e cominciare a capire quanto fossero rilevanti nell’architettura privata di Pompei. L’esempio più affascinante di questa eredità si trova nell’Insula dei Casti Amanti: la ricostruzione delle siepi concentriche di bosso e del sistema che portava l’acqua alle piante lungo un muretto perimetrale si è meritata nel 2002 il premio del Fai, il Fondo Ambiente Italiano, e ci conduce ad altre due figure, meno note ma non meno significative. Perché se negli anni eroici la gestione scientifica degli scavi era stata segnata dalla personalità geniale dei soprintendenti, più di recente è stata anche il frutto di un lavoro corale, integrato da molti specialisti diversi. Come la madre della scrittrice Valeria Parrella, che avete ascoltato all’inizio dell’episodio.
[VALERIA PARRELLA] Mia madre è stata una persona che a Pompei ha scoperto e ha dimostrato che uno più uno fa tre. Si è inventata questo laboratorio di ricerche applicate. Mia madre era una botanica: quando ero piccolina lavorava all’Orto botanico di Napoli, quello borbonico, bellissimo, di via Foria. Si occupava di piante. Noi passeggiavano nei boschi e lei nominava le cose che vedevamo ed erano tutti personaggi, piante, alberi, fiori. Conosceva i nomi di tutti. A un certo punto comincia a lavorare a Pompei, che era un posto di pietre. Le uniche parti verdi erano delle infestanti che rovinano tutti gli opus che cintavano Pompei, quindi in realtà erano viste come un genere ostile, queste piante. Quando lei arriva e si inventa questo laboratorio di ricerche applicate porta, in qualche modo, la botanica in un posto archeologico, porta la botanica a Pompei.
Bene, è arrivato allora il momento di rivelarlo. La madre di Valeria Parrella è Annamaria Ciarallo. Tra il 1994 e il 2011 è stata una figura determinante per la conservazione dell’ambiente naturale di Pompei e per la conoscenza delle tecniche antiche di coltivazione. Al Laboratorio di Ricerche Applicate degli Scavi, fondato da lei, si devono le indagini su ogni tipo di reperto organico.
[VALERIA PARRELLA] E quindi che cosa porta? La possibilità di toglierle, quelle infestanti, senza rovinare i muri sotto, e quindi restituirle alle passeggiate, agli itinerari dei turisti e degli archeologi. Ma anche un’altra cosa: la possibilità di far rinascere la vegetazione non in maniera decorativa, com’era stato fatto e come si fa in tantissimi luoghi, ma in maniera filologica, cioè andando a cercare, così come erano stati fatti i calchi degli uomini e delle donne morte durante le eruzioni per vederne la sagoma, così questa cosa si poteva fare di tutte le specie viventi: si poteva fare degli uccelli, si poteva fare dei pesci; le informazioni si potevano intrecciare con quelli che avevamo degli affreschi e dai mosaici, e si poteva fare anche dalle piante. Come? Con la forma delle radici che erano state trovate nel terreno, con il ritrovamento delle cose che si mangiavano e dei semi carbonizzati. Quindi mia madre riuscì a individuare all’interno per esempio delle insule, all’interno delle case, i posti che erano destinati al giardino quelli che erano destinati all’orto, e a capire quali erano le specie che gli antichi pompeiani, nel giorno dell’eruzione, guardavano tutte le mattine dalle finestre. E insieme, poi, al buzzo buono di alcuni soprintendenti, che continua ancora oggi, hanno ricostruito questi giardini. Per cui oggi chi di noi attraversa le case pompeiane non vede una siepe che sta lì per caso: vede esattamente la siepe che vedeva Plinio.
Prima di Annamaria Ciarallo, un’altra donna era stata fondamentale per gli studi naturalistici su Pompei. Si chiamava Wilhelmina Feemster Jashemski, insegnava Storia antica all’università del Maryland e ha esaminato ogni singolo giardino emerso tra il 1955 e la fine degli Anni 70, componendo un repertorio imprescindibile per i ricercatori. Come gli oggetti, anche le piante sono una guida preziosa per collegare passato e presente. Ma qualsiasi cosa, a Pompei, consente di viaggiare nel tempo.
[ANDREA VILIANI] Forse Pompei ci restituisce non solo un viaggio nel tempo all’indietro, ma anche un viaggio nel tempo verso il futuro, verso quel momento in cui come esseri umani ci rendiamo conto di non avere il controllo della situazione, ma che questo controllo è fatto di spinte e controspinte, di altre realtà che intorno a noi lavorano – animali come noi, ma anche vegetali o minerali –, in cui sfuma la differenza tra natura e cultura e ci rendiamo conto che questi parametri, una volta che sfumano, veramente ci permettono di viaggiare nel tempo, nello spazio e nel senso delle cose.
Questo è Andrea Viliani, capo del Centro di Ricerca del Castello di Rivoli e co-responsabile di Pompei Commitment, il progetto più recente in cui verrà chiesto ad artisti contemporanei di rileggere con linguaggi moderni la storia di Pompei. Ma in che senso commitment, che in italiano significa “impegno”? Impegno verso chi e verso cosa?
[ANDREA VILIANI] Questo commitment che abbiamo voluto mettere nel nostro titolo significa impegnarsi nei confronti di Pompei come straordinaria fonte di nuove conoscenze e quindi di nuova epistéme: intendere Pompei non come un sito archeologico che ha una sostanziale funzione anche turistica, di intrattenimento, nell’ambito dei consumi culturali contemporanei, ma intenderlo come, con la massima serietà e il massimo impegno, uno strumento e nello stesso tempo una fonte di conoscenza contemporanea.
Insieme ad Andrea Viliani, l’altro responsabile di questo progetto visionario è Massimo Osanna, il direttore del Parco Archeologico, da cui tutto è partito.
[MASSIMO OSANNA] La comunicazione archeologica io credo debba sempre passare anche dalla contaminazione, o comunque dalla interazione con il mondo contemporaneo, a più livelli, in particolare con le espressioni artistiche. Questo perché? Proprio perché Pompei ha un aspetto di humanitas, come segnalava Maiuri, che è fondamentale. Quei piccoli oggetti di vetri deformati che sono venuti fuori da alcune case pompeiane sono di una tale suggestione o i bronzi con le concrezioni di lapilli con ferro ossidato. Questa materia che si trasforma in continuazione dà spunti per elaborare nuove forme d’arte, non solo agli artisti contemporanei, ma anche per elaborare nuove riflessioni al visitatore che si trova a poter confrontare quello che è venuto fuori dal passato e quello che ci offrono gli artisti contemporanei.
Pompeii Commitment è partito alla fine di dicembre del 2020 con il lancio di un portale digitale che raccoglie documenti, saggi, diari di scavo, immagini di reperti conservati di solito nei magazzini e contributi dei professionisti che lavorano all’interno del Parco Archeologico. La seconda fase del progetto, dal 2021, prevede la commissione, la produzione e la presentazione di opere che andranno progressivamente a costituire la collezione d’arte contemporanea del Parco. Del resto, da sempre Pompei ha saputo innescare cambiamenti e innovazione, grazie alla straordinaria capacità del passato di influenzare il presente.
[ANDREA VILIANI] È questo il passato di Pompei, un passato legato alla catastrofe ma nello stesso tempo alla ricostruzione, alla sparizione ma nel frattempo anche alla riapparizione, alla morte ma poi anche alla rinascita e quindi alla vita. In questo senso Pompei è una fonte inesauribile di conoscenza anche contemporanea, se vogliamo di memento vitae.
La forza di attrazione immaginativa di questo luogo ha alimentato per secoli la passione di visitatori e artisti. Ma soprattutto delle donne e degli uomini che vi hanno lavorato e vi continuano a lavorare. Come il direttore Massimo Osanna, che negli ultimi anni si è sempre più identificato con il Parco Archeologico.
[MASSIMO OSANNA] Credo che Pompei è un mondo ed è anche il mio mondo. È un mondo perché rappresenta aspetti che sono universali, la possibilità di meditare su temi come la morte, sulle catastrofi naturali, sulla permanenza, sulla prossimità. Quindi è veramente un mondo, un mondo universale, e allo stesso tempo non può che essere il mio mondo, visto che in questo mondo ho passato gli ultimi sette anni della mia vita con grande intensità, grande emozione e grande passione.
Fino a quando questa passione resterà viva, la città antica continuerà a restituire conoscenza ed emozioni; pensieri, mode e costumi. E proprio la passione, l’eros e la sensualità, saranno i protagonisti del prossimo episodio.
[FINE]